martedì 28 settembre 2021

Cenni storici, esercizi di tragicità.

Cammino al fianco del mio cane vecchio, nei passi spolpati di carne, gonfi delle nostre ombre.

Va così piano.

Lo guardo e vedo l'antico maestro, l'oracolo benevolo, il divino battito. Non ci lega più la convenzione di un guinzaglio. 

Tu mi sei un dio stanco, e io ti sono vestale devota. 

Se solo sapessi. Ho passato tutti questi anni a cercare di meritarti.

Rimbomba nel mio respiro la benedizione del suo sguardo, ogni suo passo è un tonfo sordo, sasso nel pozzo dello sterno, singhiozzo di granito ingoiato.
Sono i colpi cadenzati dei tamburi di guerra, ai confini di un impero che non posso più difendere.

Non sono degna della sua lentezza, non sono degna di tutto questo dolore.

Mi chino e lo sfioro. Mentre chiudo gli occhi e non voglio sapere, so che sta arrivando.


Soccombere ancora.



Come mammifero, come pianeta, come carta velina su cadavere gelido, tu hai visto.

Entri in scena come filo di seta tra schegge di vetro, balzo di gatto, cifra tonda, richiamo animale, tagliola nel bosco.
Arrivi al mio perimetro di filo spinato con parole di cipria e corallo, esca di miele, gioco di specchi.
Carezze efferate. 
Sibilo di tempesta su dorsale di monte di cui ora prendi le misure, e scavi a mani nude la tua trincea del tutto e subito. 
Invasore senza monumento. Breve vittoria, nostra disfatta.

Ti inchini da vincitore.

Detonazioni nel ventre di pietra della mia fortezza,
tu artificiere esperto, minatore incauto.
La lava bianca.
Falda negata che ora cola sui bordi impenitenti della tua arroganza.

Ti abbeveri.

Il massacro degli intenti, in ginocchio alla sorgente dell'assoluto e del nulla, la saliva come rugiada su cavi elettrici, i miei nervi come corde di pianoforte, alta tensione che sibila nella nebbia.


Nell’attimo di caos massimo dell’universo
mentre io faccio finta di dormire.

Non mi proteggi.

Sono una cattedrale sotto bombardamento. 
Al bivio della mia pazzia, nella mano a conca costudisco scaglie di stelle per attutire i colpi, ma le guardo e tremo.

Nelle mie tragedie, tu Icaro al contrario.
Chi ti aiuterà a rialzarti, quando le tue ali saranno imbrattate del catrame dei miei abissi, che tanto osanni?
Come vibrazione di falena alla sorgente del buio, nessuno si salva.


Che la pena ti sia clemente.

martedì 16 ottobre 2012

i dinosauri che ho sotto.


tutti i divani che abbiamo sfondato in questi anni ci stanno ripagando con la stessa ferocia, vendette premeditate, ci spaccano la schiena nelle notti insonni di letti divisi e silenzi che nessuna coperta riesce a riscaldare.
le fær øer sono la miglior campagna antifumo mondiale, il vento spegne gli accendini come se fosse sempre il suo compleanno e la pioggia ti concede due tiri, al massimo tre. come quando a milano fumavo sotto la doccia, più per distrazione che per scienza. quando inventeranno delle lucky strike impermeabili? comunque fa troppo freddo per fumare fuori. tenere le sigarette con il guanto da forno e farsi ciao con la manina da foca attraverso il vetro della cucina ricoperto di condensa, sporco da generazioni.
mi trovi dimagrita ora che affiorano le ossa come in uno scavo archeologico, ti dico, non ti preoccupare mangerò in italia. passo le dita sui dinosauri che ho sotto le pelle. lasciami degli avanzi, mangio quando torno.
nel frattempo ci chiudiamo il cervello nei libri, come i quadrifogli di tua madre messi a seccare nella bibbia. leggere fogli bianchi è lottare per una indipendenza intellettuale.
le modifiche non salvate andranno perse, ma non è niente di importante, non prendiamoci così sul serio dai, è solo un'altra colazione andata storta.
non sono più i tempi in cui la mente andava più veloce della mano, e le parole le scrivevo a partire dalla seconda lettera, o ne scrivevo due contemporeamente una sopra l'altra, erano ideogrammi italiani di pensieri dettati da chissà chi, quanti personaggi ho ospitato quanti ospiti sgraditi e stranieri di passaggio, di cui forse solo ora percepisco l'importanza. uomini che non si voltano.
tuttavia è oggi, e in toni meno epici abbiamo ripreso a parlare.
parole pacate, più per una sorta di stanchezza che per saggezza acquisita. siamo vecchi pugili che si colpiscono senza forza, il conforto del ricalcare le stesse mosse non ci fa sentire persi.
questo è concedersi un vecchio vizio in un momento di indulgenza. l'importante è non cadere nel manierismo, e camminare senza calpestare i propri passi è assai difficile per chi cammina in tondo.
ma forse ormai sono arrivata al punto in cui mi sazia il gesto. scrivo appunti che abbandono, scatto foto che non sviluppo, compro biglietti senza partire.
non lo so.
ripeto, non è importante.

sono solo ricordi, rigurgiti di esperienze fatte molto tempo fa. forse solo cose immaginate, ma tanto adesso non fa più differenza.

domenica 18 dicembre 2011

l'età del dubbio.

e tu mi dici che le descrizioni sono inutili e le salti a occhi pari, è vero, sono d'accordo. ma io cos'altro posso scrivere, se non succede niente.
niente di niente.
mi devo immaginare tutto, come sempre, più di sempre.
anche l'universo sul soffitto, dato che il proiettore delle stelle costava dieci volte tanto i soldi che avevo in mano.
va bene.

un va bene che sarebbe un vaffanculo, è solo un vezzo di forma.

intanto mi cadono i libri addosso, ognuno urlando il suo titolo.
una lapidazione per la mia cecità.






giovedì 27 ottobre 2011

ti ricordi via mercato.

ti trotterello dietro con i sacchi della spesa.
il marciapiede è un mosaico di scarpe e cani, i movimenti lenti della domenica mattina.
nessuno ha fretta. nessuno tranne te.
a dire il vero non hai fretta nemmeno tu, fai così solo per mettermi in difficoltà, mi sa.
ma dove vai, adorabile tortura. ma non vedi che ti tengo sotto l'ombrello anche se scappi.

siamo già passati dal giornalaio, dal supermercato e dal fiorista. abbiamo tutto quello che ci serve per chiuderci in casa, lasciare fuori le nostre vite feriali che ci piacciono così così.
potremmo essere stupendi oggi.
ho cambiato le lenzuola stamattina, mentre facevi la doccia. ho messo anche il piumone, dai andiamo ad abitare lì sotto.
ti racconterò io delle storie, quando finirai i tuoi libri sul comodino e gli altri saranno troppo lontani da raggiungere.
te lo prometto, sotto il piumone non entrerà mai né il freddo né la realtà.
che pensiero incantevole. quasi quasi te lo dico, ma tu superi ancora e mi lasci indietro.
passeggini e motorini. via mercato è così stretta, il tram che mi sferraglia accanto mi accarezza i capelli.

amore mio, ma se muoio ti fermi?

per me il tuo dietro e il tuo davanti non coincidono più ormai. siete due persone diverse.
e tu sei a casa che mi aspetti a braccia aperte, e io posso tornare e dirti, amore mio scusa non ce l'ho fatta a catturare il tuo dietro, ma sappi che a me vai bene anche a metà.
o magari devo fare io dietro front e cominciare a camminare, tanto è tutto un tondo qua, così prima o poi ti vedrò all'orizzonte che mi vieni incontro e sarò di nuovo felice.

poi succede che ti fermi all'improvviso. ti volti di scatto e mi dai un bacio con una foga che assomiglia alla violenza, a un'attesa di anni, a una distanza interplanetaria subita ingiustamente.
a me cadono a terra borse e congetture.
scusate, attoniti astanti, ma qui funziona così.
cosa posso farci io.

tutto il resto è una festa di piccole cose che dura l'era di una domenica.
siamo sereni anche quando arriva il lunedì mattina, quel buttafuori slavo che con due spintoni ti riconsegna al mondo.

venerdì 8 luglio 2011

narvali, e altri analgesici.

nei parchi a leggere, nei bar a scrivere, nei cessi a scopare.

è tornato il dolore, una fitta soltanto, quanto basta.
ritornare a chiedere dell'universo, a urlare attraverso la serratura. ancora una disfatta, quei discorsi sul senso e sul tutto che hanno il tono di un'accusa, di una supplica, di una condanna e una preghiera.
gli appunti presi a tarda notte con fatica, registrare, testimoniare e verificare il giorno dopo, alla luce del sole e del mal di testa.
setacciare i cumuli di parole, vedere se c'è un granello di concetto, una scaglia di preziosa comprensione.

niente.


nei parchi a scrivere, nei bar a scopare, nei cessi a leggere.

tornavo in bicicletta, troppo veloce, troppo buio, troppe buche.
era solo il gesto dello scappare, so fin troppo bene che non c'è via d'uscita.
facevo pensieri impossibili, duravano il tempo delle bolle con la cicca. mi scoppiavano in testa, mi restavano appiccicati dei brandelli.
fregarsene è una forma di accettare i propri limiti, anche se accettare non è la parola giusta. non si accetta mai fino in fondo. il vuoto rimane, e anche se lo circoscrivi a un piccolo punto nero nei recessi della mente, continuerà ad aspirare.
la sofferenza che genera il pensiero dell'universo, e viceversa.
e allo stremo delle forze psichiche, essere sempre lì.
percepire, ma non capire.
ma come abbiamo fatto ad arrivare a questo?
chi può essere stato tanto sadico?
se non è previsto che io capisca la realtà, me, il resto allora perché sono stata messa nelle condizioni di pormi delle domande?
ma che beffa è?

strazio e fascino, ma senza un'estetica.
struggimento e palliativi. tutto il giorno, tutti i giorni.

cos'altro posso fare?


nei parchi a scopare, nei bar a leggere, nei cessi a scrivere.




sabato 14 maggio 2011

derive in un punto fermo.

questa abominevole serenità.
un'atarassia sospetta.
una felicità quasi minacciosa.

mha, non so.
no, non mi sto lamentando.
è solo che tutto ciò non mi convince.

proprio non riesco a fidarmi delle acque calme.
non riesco a rilassarmi al sole di una esistenza così tranquilla.
sarò stupida, ma una vita privilegiata, sospesa, comoda forse non è esattamente quello che fa per me.

del resto, marinaio, la bonaccia uccide in modo più subdolo e crudele di una tempesta.

mercoledì 27 aprile 2011

l'estetica del velluto.

forse ora mi spiego perché metti sempre un velo di seta come sfondo alle tue foto, anche quando lo sfondo c'è e sarebbe perfetto così.
e capisco anche quando mi parli del verde e del movimento, e non vuoi essere chiamato poeta ma poeta lo sei.
mi piace l'eleganza con cui nascondi il tuo disagio, le forme raffinate e inafferrabili con le quali combatti la tua sofferenza, in quel tuo modo privato e intimo, senza dare nell'occhio, senza ostentare il tuo male a gran voce come tutti.

forse ora mi spiego perché non esisti.

e mi ricordo che credo nell'umanità solo perché è stato l'uomo a inventare il pianoforte.
e di quella che volta che ti ho macchiato il letto, ti ho lasciato una corsica di sangue sul lenzuolo o ho soffocato un sogno con il cuscino.

lunedì 18 aprile 2011

la filosofia del dinosauro.

la visione d'insieme.
la visione dall'alto.
come una costante matematica, alla fine di qualsiasi pensiero più o meno articolato il risultato è sempre e solo la lucidissima consapevolezza di non aver capito niente ancora una volta.

confortante.
almeno una cosa chiara.

poi certo, si può sempre andare avanti a leggere un altro libro.
accumulare teoria e morire di inazione, certi dell'inutilità del tutto.

oppure fare come me, e fregare il tempo con l'amore.
imparare ad amare, come fosse un artigianato massonico, un mestiere desueto.
una missione, oserei dire.
per questo ti chiedo solo di non risparmiarti.
fammi anche male se capita, ma non risparmiarmi niente.

venerdì 15 aprile 2011

velleità.

a portarmi fuori furono le mie gambe nude e gli amici migliori che avevo in città.

la primavera comportava calori imprevedibili. rimbalzavamo uno sull'altro in una sorta di sobria ubriachezza. ci stavamo tra le braccia, ci toccavamo, giustificati della nostra idea di affetto. era un'incerta promiscuità collettiva, dove a salvare le apparenze, se mai ce ne fosse stato bisogno, c'erano quei pochi vestiti che avevamo addosso.
sembravamo tutti animali in amore. le danze di corteggiamento, i giochi, rincorse e lotte gioiose.
dove smettevamo noi continuava il corpo, poi, in quel suo modo autonomo e inconscio che appartiene alla memoria delle cellule.
delle scopate latenti, insomma, subepidermiche.

io però avevo il guinzaglio più corto della storia, quindi rimanevo buona.
più buona che potevo, almeno.
perché poi negli sms che ti ho mandato non avevo le labbra serrate, come giù in strada.
sì, puoi dirmi che sono enigmatica e ambigua, che ti disoriento e complico le cose.
tutto vero, è così.
questo è quello che sono, il resto sta a te.

more tra i rovi.
preparati.







sabato 9 aprile 2011

immagine.

pelle bianca e lividi neri, capelli fini e occhi stanchi, da quando abbiamo fatto pace con noi stessi, armistizi con i corpi. non siamo più duttili, e ci arrendiamo.

fotografami la dolce resa alle imperfezioni.

le foto di tavoli di legno con tazze di caffè e cartine e fogli e posacenere, questo gusto contemporaneo, la stampa giapponese nella casa nordica, i pezzi di corpi.

le luci.


a farmi bella sono i libri che leggo. i pensieri che faccio. le persone su cui poso lo sguardo.




un grande tessuto di seta floreale, il mio corpo nudo, le foglie d’edera dietro.

tre veli sovrapposti, un’unica percezione.


la bellezza autentica che non mi costa.

domenica 20 marzo 2011

appena fuori, qui dentro.

il giappone che era un occhio pieno d'acqua, la libia una gola in fiamme.
i cieli primaverili miopi, non vedevamo gli aerei, ci fermavamo ai germogli a mezzo metro sopra di noi.
avrei voluto urlare.
camminavo con il viso indurito, come una modella in sfilata.
raccoglievo monetine per terra, bottoni, tappi di birra.
telefonavo a mia madre ogni ora, ogni volta come fosse un addio.

poi ti ho visto, e non eri nemmeno più tu. vedevo in te tutte le possibilità immaginate, i miei desideri così ingenui e adolescenti, le probabilità impossibili.
sciocchezze necessarie.
bustine di zucchero in bidoni di sabbia.

il temporale.
un temporale.
tuoni veri, lampi veri, gocce dritte e pesanti.
come me lo assaporavo il temporale, c'era profumo di bosco in cadorna.
come ce lo siamo goduti, il temporale, nella nostra veranda di lamiera e cuscini.






giovedì 17 marzo 2011

biglietto sul cuscino.

sparisco perché devo farlo -credimi, non c'è alternativa.
la solitudine è il sapone necessario per lavarsi via il mondo dell'apparenza e della futilità, le lusinghe, le voci degli altri. le informazioni.
la prima cosa che farò riaccendendo il telefono sarà chiamarti e dirti che sto bene.
poi guarderò chi mi ha cercato.
chi mi ha cercato e come l'ha fatto.
e da lì ripartirò.

(sul retro)
se ti senti sola è perché ti sei distratta.






sabato 12 marzo 2011

fragole nella grondaia, fox trot.

giardinaggio scellerato, alle sette e mezzo di mattina, a mani nude e ballerine chanel.
dopo che ho passato l'ultima notte in compagnia di paranoie di gran classe, con i miei cavalli di battaglia sempre al galoppo, tornerò povera e i francobolli non esistono più.
i francobolli che sembravano quadri alle pareti bianche delle buste, non i rettangoli logo/prezzo delle raccomandate della banca.
che alle tre ho dovuto accendere la luce, mettermi il cappello di paglia e svegliare di soprassalto il grammofono, ti prego suonami un fox trot.
e poi è finita che ho fatto il giro di tutti i dischi, e all'alba mi faceva male il polso e mi bruciavano gli occhi, ma almeno non ero scappata.

il tostapane con le sue due bocche da sfamare, ci ho piantato dentro delle rose.
e un tulipano nella caffettiera. non ci sveglieremo mai più completamente, resteremo tutto il giorno intontiti e inutili.
poi fragole ovunque, anche nella grondaia.

per fortuna che non c'eri e non potevi fermarmi.
per fortuna che non c'eri e non potevo ferirti.

la distanza di sicurezza dalla mia follia, nuoti a vista lontano dalle acque torbide, e penserai di me un atollo tropicale dei tuoi giorni migliori.

bene.

perché anche ora, adesso proprio, mentre bevo piano l'acqua che mi hai portato e tu resti a guardarmi con tutto questo amore, penso a me che mordo il bicchiere, mastico il vetro come fosse un cubetto di ghiaccio, inghiotto schegge e sangue e ti sorrido.

mercoledì 9 marzo 2011

confiteor

mi sento una casa infestata dai fantasmi.

sono una diga sul punto di esplodere,
una pelle d'insetto crepata e vuota.

eccoli, sono tutti qui dentro, li sto sentendo premere forte.
i grandi classici. i massimi sistemi. le correnti filosofiche, gli avvenimenti storici, i maestri di vita, la letteratura, la ricerca, le domande, l'innalzamento, l'idea dell'universo, la cultura, la scoperta, le lettere, la riflessione esistenziale, il superamento, il canone classico, il nuovo, l'incontaminato poetico, la memoria, i modelli, l'intelletto, la rappresentazione teatrale, l'immaginazione, la fondazione, l'illuminismo, il linguaggio, la rivoluzione, la saggezza antica, l'intelligenza, le pulsioni ataviche, il romanzo, la lungimiranza, il patrimonio della scienza, le idee dei geni, le vite dei grandi, la musica, le muse, la devozione al sapere, l'esperienza artistica, i pilastri della conoscenza, la perfezione.
le parole.
la scrittura.

come se tutto questo mi fosse entrato negli anni sotto forma di seme, e tanti semi hanno trovato terreno fertile nella mia mente per attecchire e crescere, e ci sono stati giorni immensi dove germogliavano in me, l'aspirazione massima della grandezza dell'uomo.
e ora sono fiorita dentro, ora anche io sono carica di semini.
ma ecco che qui mi sento dilaniare, mi sento male.
nell'espressione del mio contenuto sopraggiunge tutta l'inadeguatezza della mia condizione umana. misuro la mediocrità con spavento e sconforto, vedo lo scarto tra l'idea e la realtà, la mia goffaggine, la mia bassezza.
è una produzione spesso traumatica e sempre incompiuta.

è un parto che mi uccide.

perché le ovaie io ce le ho nel cervello.
se deve nascere qualcosa da me, è lì che si creerà.
ma sono tanto fertile quanto incapace.
la mia creazione, la mia espressione è una storia di lunghi travagli e mancati concepimenti.
i miei figli nascono idee e muoiono mal di testa, pensieri che prendono forma e smettono di crescere, li perdo nella loro forma embrionale e incompleta, è un costante lutto di un mancato inizio.
progetti ad occhi aperti e tentativi spietati di comunicare, di condividere, di scrivere.

è la storia della mia vita da quando ne ho coscienza.
non c'è pietà per nessuno, me compresa.
questa sofferenza che provo adesso avrà un nome o smetterà con me, quando smetterò io.





"il fiore è il dolore della radice"
manuel guerra junqueiro.

giovedì 24 febbraio 2011

dal sottosuolo, uno.

tu non hai colpa.
so che hai fatto tutto il possibile, so che avresti potuto fermarti molto prima.
non te ne sono grata, ma te lo riconosco.
e ora che mi chiedi spiegazioni, ti esorto solo a non odiarmi.


con parole nuove ti racconterò storie vecchie.
le mie vecchie paure che sono dentro di me come le vene.
le sento ovunque, ramificate tra gli organi, a irrorare di dubbi e angoscia anche la piccola cellula del mio corpo, come un processo biologico di anti-metabolismo.
amici miei, che siete i miei fratelli e i miei sconosciuti.
cosa vedete qui?
chi vi metto davanti?
quanto siete disposti a non sopportare per sapere chi sono davvero?


potrei morire crisalide e lasciarvi innamorati solo del mio bozzolo.
potrei non sbocciare mai, perché sto capendo solo ora che forse non mi basta una vita.
o forse non mi so organizzare.
o l'utero è un luogo della mente, e dura anni dura per sempre.
io non sono ancora nata.

non sono ancora nata.

nel frattempo giro per il mondo in personaggi irrinunciabili.
non so recitare, so vivere le vite di altri.


domenica 20 febbraio 2011

vecchie storie, storia moderna.

(temporali e primule, sulla tua pelle di seta e fango, sono sdraiata nel tuo letto capace di sogni.
mi hai cercata? mi hai voluta? mi hai aspettata?
lo so, lo sento e il mio viaggio attraverso l'italia vale la promessa di un brivido.
sarai il mio illuminismo, il mio rinascimento, il mio umanesimo.
mentre il treno mi attraversa i ricordi e le persone cambiano.
vedo tutto e non vedo niente.)

di tutte le parole che hai detto, qualcuna da vivere noi due.

che cosa abbiamo rubato, da qualcosa siamo partiti.
quanto ci siamo fatti attendere tutti e due, per capitarci a caso in un imprevisto perfetto.
quante persone abbiamo sopportato per arrivare a noi.
e sul tavolo ti metto solo il mio sorriso ambiguo, per vedere tu come ti muovi.
e sei la conferma del mio istinto, sei un fiammifero acceso che non è stato sprecato.
sorprendimi, sorprendimi ancora.

posso aspettare ancora anni contati sulle punte delle notti.

mi hai appiccato un pensiero.
brucio discreta.
aspetto il rogo.

(e le mie gambe sotto le lenzuola, come radici d'alberi ricoperte di asfalto, che ti fanno disarcionare dalla bicicletta se non ci stai attento.)

sabato 12 febbraio 2011

il capovolgimento della clessidra.

eravamo giù, alla rimessa delle barche, nella vecchia villa sul lago della nostra migliore amica.
l'autunno cedeva all'inverno, era tutto più rallentato e vivido, e noi, come sempre, avevamo un po' freddo.
gli altri erano in casa, noi ci eravamo fatti un giro per quel parco immenso, e poi eravamo finiti lì, per caso, voglia o necessità.
subivamo già l'attrazione per i luoghi dismessi, i luoghi arresi alla loro fine ma ancora fieri del loro passato. ne avevamo trovati tantissimi insieme, e avevamo passato pomeriggi a stare bene, senza conoscere ancora la parola decadenza e quanto sarebbe stata fondamentale per noi di lì a poco.
questo era il nostro preferito.
eravamo lì, innocenti e compromessi, a giocare in bilico sulla darsena, seduti a cavalcioni su una trave.
pensa, eravamo più forti anche delle mie ataviche vertigini.
stavamo facendo una specie di tris con i petali di un fiore, ma con delle regole più divertenti che avevo inventato io al momento e che ora non so più.

il mio mondo. lo scenario sempre uguale, lo sfondo delicato delle mie trame.
forse era cambiato lo sguardo, era cominciato un nuovo atto, ci ritrovavamo ma non ci riconoscevamo più.
sono passati dei minuti scanditi solo dalle ondine sugli scafi, minuti come ore, come una vita intera.
l'inverno avanzava sopraffattore, si prendeva il suo posto a pugni e raffiche di vento, ma io ho pensato:
è la mia primavera.



occhi negli occhi.



ci ha risvegliato uno stormo di anatre sopra di noi, la frizione del vento tra le loro ali.
tu che hai fatto quel mezzo sorriso, così simile a una smorfia di dolore.
e con il dorso della mano hai lasciato volare via tutti i petali.
ti sei sollevato, mi hai fatto una carezza sulla guancia, mi hai guardato senza direzione e hai detto,
ora fa freddo, dai, andiamo via.


la fine della mia infanzia e l'inizio dell'adolescenza.
un confine convenzionale che ho tracciato con una certa arroganza, come le linee tra gli stati africani, belle rette sulle cartine, insensibili ai massacri e allo scompiglio.

giovedì 10 febbraio 2011

di nascosto da noi.

ma c'è la nebbia o abbiamo i vetri sporchi?
non siamo più intellegibili come un tempo, quando eravamo così stupidi che tutto era più chiaro.
sfrego con la manica il vetro, osservo la detonazione prematura dei cento giacinti in terrazzo, sono le luci di natale della nostra primavera invernale.
parlo da sola perché tu sei a parigi.
mi chiedo quanto tempo è passato, ma me lo chiedo come se la risposta fosse già la frase.
quando tornerai dovrai rimetterti subito in viaggio per venirmi a cercare, nella terra sconosciuta e scontrosa delle mie divagazioni. che ormai quando parti e mi baci sulla porta, mi dici cerca di non allontanarti troppo.

i miei amici mi portano il cibo, come le gattare tra le rovine, come gli indigeni al tempio.
fiori frutta e film, perché tutto il corpo abbia il suo nutrimento, e la compagnia si faccia sottile e assimilabile come un gas euforizzante dissolto nell'aria.

inventeremo ancora un altro alfabeto per parlarci di nascosto da noi stessi.


lunedì 7 febbraio 2011

narciso nel pozzo.

l'autocritica feroce, il massacro mediatico a riflettori spenti, i capelli.
quel mio preoccupante disturbo della vista che non accenna a migliorare, che da vicino vedo tutto ingrandito e da lontano invece vedo così sfocato che è nebbia. la mia cortomiranza cronica, che basta tornare a terra, quando le ruote dell'aereo sbattono sull'asfalto, e io già ho perso di vista la mia proiezione ortogonale, l'orizzonte sottolineato con l'evidenziatore, mi sono già persa di nuovo. e mi capita di trovarvi ancora attraenti, appetibili, ammirabili, voi che siete il nulla, che siete l'ingannevole niente della vostra superficie levigata, che siete quelle quattro foto desaturate che vi siete fatti, voi che siete la manciata di parole che avete scritto, e pensate di essere l'evento che sposta l'asse terrestre di qualche millimetro.

vi.credete.così.importanti.

ma voi non siete un cazzo, ragazzi, spegniamo la musica e accendiamo le luci.
non siete niente di niente, vi siete ricoperti di rumore e parole grosse per non vedere.
carne passeggera, nell'assoluto effimeri, sostituibili, eventuali.
se ci fosse del genio in quello che fate, si sarebbe già fatto strada da solo.
se ci fosse del talento, non vi struggereste nell'ostentare.

voi state passando la vita a gridare che state esistendo.
e il tempo passa voi, ignorando la vostra fatica.

(sopravvivi.
nessuno ti sta guardando,
nessuno ti ha mai guardato.)

bugie
tristezza
solitudini
paure
sono di tutti.
non sei speciale.
accettalo.

m.c.

sabato 5 febbraio 2011

occhi e occhiaie dello stesso colore.

gli adesivi sui vetri, quelle etichette bianche sulle finestre delle case nuove che segnano la fine del cantiere e l'inizio dei traslochi.
le parole che non restano. e plastifico i fogli, riempio i quaderni, catalogo, imbusto, graffetto. creo il più grande archivio ufficiale della storia privata, trascrivo messaggi, copio incollo, perdo le notti per salvare le parole.
per i paleontologi del futuro, che scaveranno alla ricerca dei fossili dei nostri ti amo.
la tua collezione di aria nei barattoli, quando è caduta la mensola in camera tua, e abbiamo respirato dieci città contemporaneamente, tranne bangkok che si è salvata.
le cartoline che ci spediamo quando siamo in giro per il mondo, indirizzate a noi proprio, così quando torneremo a casa saremo felici di aprire la cassetta delle lettere, perché ci scriviamo cose bellissime e ci auguriamo di vederci presto, e chissà cosa pensa la portinaia poi.
quella frase che mi hai detto uscendo, e io non l'ho ancora capita.
e quando mi piangevi sopra e le tue lacrime mi entravano negli occhi come collirio.

la verità che sta nel silenzio e nel colore delle pillole sul comodino. perline di una collana rotta, ciondoli che hai ingoiato a uno a uno quando avevi la bocca aperta per dire qualcosa che poi non hai detto. come mia madre da bambina che mordeva la sua placchetta d'oro con incisa la madonna, ogni volta che aveva paura.
me l'ha fatta vedere da grande con tutti i segni dei morsi.
e io lì, mi son sentita morire.
ma morire, proprio.

giovedì 13 gennaio 2011

il mio addio è una porta che sbatte.

la città non aveva rumore.
camminavamo per le strade con gli occhi socchiusi, con le orecchie penetrate dalle cuffie, fecondate da musica liquida, un orgasmo interminabile e continuo, non potevamo sentire altro.

eravamo puri e informi come un diamante grezzo, pericolosi nel potenziale ma ancora innocui per la società.
bada bene, più svogliati che incapaci.
la congiuntivite a causa della polvere delle comete, noi che non mettevamo un telescopio tra i nostri occhi e il cielo, noi che non dormivamo la notte.

poi non so bene cosa sia successo. qualcosa è scricchiolato, è durato un attimo.
un singhiozzo, un crampo.
tu hai accettato di vendere qualche foglio in più, hai deciso che puoi tollerare la moquette di un ufficio.
io ho accettato di farmi accudire, ho permesso a qualcuno di prendersi cura di me.
ma un poeta non vende assicurazioni e un randagio non mette il collare.

non è grave, non c'è niente di sporco, e soprattutto non è irreversibile.
je n'accuse pas, te lo sto solo facendo notare.

sì, potremmo diventare un esempio per noi stessi, ma a che scopo?
per comprare il manifesto a cinquantadue anni e disprezzare ancora tutti, per vantarci dei capelli selvatici i miei nodi che spaccano i denti ai pettini, come pugni assestati contro ogni tentativo di disciplina? per avere ancora freddo in casa in inverno, per poter mostrare i palmi bianchi dove la filigrana non ha lasciato tracce? per avere più foglie che radici, per ridere forte nei citofoni delle ville di quelli che erano i nostri amici, i nostri simili? e poi girarsi, dare loro le spalle, e ostentare il nostro nulla come sinonimo di vittoria.

perché tu mi avevi detto, in tempi non sospetti, che anche prendere una scorciatoia significa lasciare la strada maestra.
ma la strada maestra dove porta, amico mio?
la metempsicosi di se stessi, le capriole mentre tutti corrono a squarciagola verso l'alto.

io ci sto, per me va bene.

c'è chi usa i mattoni delle sue idee per edificare, costruire qualcosa. c'è chi li lancia per distruggere, per ferire un altro. ci sono quelli che ci costruiscono mura spesse e si seppelliscono dentro.
noi chi vogliamo essere?
le nostre idee sparpagliate per terra, ogni tanto ci inciampiamo dentro, ogni tanto facciamo una pila e ci saliamo sopra per vedere un po' più lontano.

se il gesto non ha ancora uno scopo, che abbia almeno una sfumatura dolce, romantica.

e comunque non c'è pericolo che io mi perda, davvero.
anche senza cartelli saprei dove andare.
ho la stella polare nella costellazione dell'orgoglio.
e i miei no non sono caricati a salve.

lunedì 10 gennaio 2011

quando ancora mi abbeveravi.

e poi le tue parole si sono rarefatte, era come se mi avessi scritto da più lontano, come se ti fossi già alzato in piedi dalla scrivania mentre la penna finiva le frasi.
avevo lenti di ingrandimento appese ovunque, le mie dita erano pinze, avevo cambiato le mie funzioni vitali come un animale evoluto in fretta per sopravvivere al disastro.
non serviva più che ascoltassi, non serviva più il gusto, dovevo cercarti fuori dalle leggi di questo mondo, fuori dalla geometria euclidea, lontano dalla decodificazione letteraria.
capivo ciò che mi dicevi (o meglio pensavo di capire).
eri sempre un'esperienza bellissima e valevi ogni sforzo e ogni costo.
la tua stilografica che arava le pagine, i mondi che germogliavano.
le mie pupille erano nere per l'inchiostro che bevevano.

sabato 8 gennaio 2011

e poi sono arrivati con i fogli di giornale a coprirmi, come un mazzo di fiori avvolto nei necrologi di ieri, e mi sentivo soffocare, non li volevo, me li strappavo di dosso con le mani con le unghie mi graffiavo la pelle mi strappavo brandelli di pelle e notizie e mi ricoprivano ancora coi fogli dei giornali, come garze sull'ustionato, il mio sangue mischiato all'inchiostro, infettarmi della loro realtà, di verità faziose delle parole degli altri, di altri che non voglio sentire, che non voglio che esistano.
che ora vorrei farvi più male possibile e comunque non sarebbe mai abbastanza.
perché gli specchi sono distorti e gli specchi sono dentro, non c'è obiettività, non ci sono parole di conforto, di confronto, non ci sono contatti e non mi ha colpito nemmeno quando sei scoppiato a piangermi davanti anche tu, e hai urlato per la disperazione, per la frustrazione e ti sei aggrappato ai miei capelli alle mie guance mi hai storpiato per aggrapparti a me per cercarmi e piangevi come un adulto, eri straziante ma non è servito a niente, e se vuoi di là su quella scrivania c'è un foglio per i reclami, complilalo in tutte le sue parti quando ti sarai calmato e fammelo ingoiare, odiami, disprezzami, archiviami anche tu, sposati con una commessa, una cubista per trofeo, la tua maestra delle elementari che ti dica ancora bravo sei bravo.

voglio dimenticarvi tutti, tutti senza eccezioni.
e forse dovrei rivoltare gli occhi indietro e lasciarvi il bianco delle orbite per specchiarvi, che forse vi farà meno paura, vi piacerà di più del mio sguardo di adesso.

ma non mi va di compiacervi, voglio stare male e dare fastidio, se stare male e dare fastidio vuol dire essere me stessa, non posso più tradirmi, ritoccarmi, salvare le apparenze equivale a fottere se stessi.

perché anche tu ti senti un mostro e se mi dici no è ancora peggio perché significa che nemmeno ne hai coscienza.
mi fai schifo.

dio se mi fai schifo.


venerdì 7 gennaio 2011

come la lacrima del pagliaccio.

ho compiuto gli anni a diecimila metri dal suolo, e mi è sembrato di buon auspicio.
mi racconti che le hostess si sono avvicinate con lo champagne e un tortino, ma io avevo già preso il lorazepam e non siete riusciti a svegliarmi, che sembravo morta.
la situazione ti è sembrata un po' tragicomica, imbarazzante.
però abbiamo riso molto mentre aspettavamo i bagagli, e poi è apparse la vale, la vale! era sul nostro stesso aereo e non ci ha trovati, appare il giorno del mio compleanno al ritiro bagagli e mi regala un sonaglio di agata bellissimo.
poi mi dice ci vediamo e va a casa.
anche noi torniamo a casa, ma la nostra casa lontana da casa.

milano richiede prove d'amore sempre più dure. questa madre assente, questa puttana stanca. ci accoglie con gelo e buio, mentre le nostre amanti occasionali ci hanno cosparso di raggi di sole e inondato i capelli di aria profumata. hanno provato a trattenerci, ci hanno cullato di promesse.

per tutto il giorno mi hai fatto gli auguri ogni manciata di minuti, mi è servito a ricordarmi, a stare concentrata, a stare calma.
ti dico che i compleanni li festeggio blandamente, non sono questi i traguardi che segnano la vita di una persona.
ma tu, che celebri la mia esistenza ogni giorno che passa, mi porti sottoterra nelle piscine dorate, metti il mio corpo su un piedistallo, mi idolatri.
io sto al gioco per non deluderti, per aiutarti ad aiutami.

ma arriva la notte, la mia ricompensa
ti sento dormire, mi libero, scivolo via.
i miei tremori, le mie scosse lontane, questo mio malessere segreto e costante.

scrivo agli amici più vicini,
spegno il computer,
ora posso piangere.

martedì 4 gennaio 2011

sciogliti i capelli, sei in patagonia.

vorrei aver vissuto il giorno prima delle cose.
mi immagino sempre il giorno prima degli eventi.
come il 10 settembre a new york, il 5 agosto a hiroshima, il 26 novembre a casa mia.
cose così.
camminare inconsapevole e provare a sentire se si avverte nell'aria la vibrazione, la tensione della storia che cambia.
qualcosa deve pur esserci.

non c'entra niente, è un pensiero fuori luogo, dev'essere colpa di quello che mi hanno appena detto.
tipo che la tierra del fuego si chiama così per via dei fuochi accesi dagli sciamani per avvisarsi tra loro, quando si sono resi conto che stava accadendo qualcosa di mai visto.
il giorno prima che la nave vede la terra e la terra scopre la nave.

così ora siamo alla fine del mondo.
stiamo risalendo questo canale irritato, tra gli ultimi lembi di terra. lo stesso dei conquistatori, degli invasori.

siamo in barca e tu mi tieni per un'anca e una spalla. hai paura che cada giù dallo scafo, e l'ipotermia arriverebbe prima del salvagente. e poi la nostra guida ti ha detto che i granchi qui mangiano qualsiasi genere di cadavere in meno di un giorno.
noi ci siamo mangiati un paio di granchi a testa ieri notte.
quattro a zero per la nostra specie.

quello che vediamo è un po' familiare e un po' inumano.
abbiamo dei punti riferimento, sappiamo dare il nome alle cose, eppure è come se gli elementi fossero moltiplicati per se stessi, l'acqua è più acqua, il cielo è più cielo.
non lo saprei spiegare, nemmeno il mio obiettivo nikkor riesce a starci dietro.

cormorani meduse balene in lontananza.
leoni marini a mezzo metro da noi.
l'indigeno ci spiega che ogni maschio ha il suo harem, e che ucciderà ogni cucciolo maschio delle sue compagne.
poi ci indica una femmina in disparte che tiene lontani tutti, fa dei versi terribili, fa venire i brividi.
è straziante.
mi dici che la natura è crudele, ti dico che non me ne frega un cazzo, se quei cinque quintali di merda si avvicinano al cucciolo io scendo da qui e lo stordisco a colpi di macchina fotografica, tu prendi il piccolo, rassicura la madre che lo nutriremo correttamente e provvederemo alla sua istruzione.
nessuno ammazza nessuno davanti a me.

la mia giornata è rovinata, e le acque sono sempre più irrequiete.
ho la nausea da labbra viola contratte.
ci avviciniamo all'antartide, passiamo il faro, ultimo vessillo umano.
cerchi di distrarmi parlandomi di pirati, esploratori, sciamani e mappe del cinquecento.

mentre sotto i nostri piedi i due oceani si incontrano, ci abbracciamo anche noi.
tu mi baci.
io vomito.

(davanti al ghiacciaio che avanza e cade, ieri, mi hai detto la cosa più bella che io abbia mai sentito.)

sabato 1 gennaio 2011

lavati i capelli, sei a buenos aires.

il taxista ci dice no, non ci può portare.
sparano, dice.
sparano di tutto, sparano ad altezza uomo, tirano anche le bombole del gas.
attraversare la città adesso sarebbe da pazzi.
roba che napoli in confronto è un tempio buddista.

dobbiamo rimanere ancora a questa festa. noi che stavamo facendo di tutto per scappare, metterci in salvo.
preferivo le bombe a sta roba, mi dici. e io sono d'accordo, ho paura di restare traumatizzata.
ci ha portati un tuo amico, e ci ha abbandonati.

quello che vedo è surreale.
un hotel inaccessibile, ricchi stranieri dissolti, l'allegria infelice.
che sembra di essere in un film diretto da buñuel, con casting di pasolini e sceneggiatura di easton ellis.
e a me mettono in mano una banana maracas. una banana d'argento.
e le ballerine brasiliane le vecchie americane sui tavoli a dimenarsi e perdere le protesi un vecchio in completo bianco che fuma un sigaro su una chaise longue dentro la piscina camerieri nudi piume di struzzo in testa petali di rose e dollari sparati come coriandoli riporti extension parrucche di fili d'argento ballerini di tango e il pianista che mi vede smette di suonare e corre ad abbracciarmi e baciarmi come se gli fossi mancata da sempre.

e quella donna che ti ha sorriso e si è sfilata un collier tra i denti, come se ce l'avesse avuto in gola, come se la festa eravate te e lei.

che tanto ci siamo fatti gli auguri alle otto ora locale, io e te.
e tutto il resto è solo un secondo livello di sogno.


giovedì 30 dicembre 2010

ocho cuadros.

mi dice che il giorno che aveva imparato la sua lingua lui si era ammalato.
il primo giorno in cui lei era riuscita a parlargli in spagnolo lui si era steso a letto e non si era più alzato.
il sole ci sta sopra come la lampada dei pulcini, io mi genufletto davanti alle tombe per cercare l'inquadratura e lei mi dice che da allora lo spagnolo non l'ha parlato più.
me lo dice in spagnolo e mi indica una lapide diversa da prima.
la guardo e vedo una tenacia folle e disperata sotto la sua vecchiaia.
l'amore l'ha portata fin qui, il dolore non la lascia andare via.


a me piacciono i cimiteri, ti dico, non i centri commerciali. i centri commerciali mi fanno paura, mi ricordano la natura della condizione umana, mi fanno pensare che un giorno potrei finirci dentro anche io.
ma tu non hai voglia di parlare e mentre risaliamo san telmo stiamo zitti un po'. i miei piedi si sfaldano in scarpe inadeguate, un signore ci cammina accanto cantando un tango a bocca chiusa, la melodia mormorata, negata agli altri, protetta dal rumore delle cose fuori.

gli uomini hanno camicie a quadri, le donne indossano occhi neri e bambini. i chioschi con le arance fanno le spremute, e le case di lamiera colorata sono state dipinte con le vernici avanzate dalle chiatte del porto.
nel quartiere pericoloso dove tu non vuoi farmi andare.
che la distanza tra noi e le cose che vogliamo vedere è sempre ocho cuadros, ci dicono, anche se poi sono venti o sono tre.
anche se poi comunque tu mi seguiresti dappertutto, come io seguo te ovunque.


il loro spagnolo morbido e sbiascicato, come se fossero appena svegli, come se fossero ubriachi.
un paese che ha ricacciato in mare invasori madrepatria e oppositori. un paese che non c'è la fatta. vende caramelle e case al prezzo di un'offerta libera.

e cammino per le strade deserte dell'alba, sono le sei di mattina qui.
cani e casse di bottiglie vuote.
l'odore dolciastro di liquori e di asfalto caldo. l'odore che riconosco.
il comune denominatore del mondo, ci scorre lo stesso alcol nelle vene.
nell'alcol siamo consanguinei.

giovedì 23 dicembre 2010

passaggi.

i miei fogli bianchi.
il perenne autunno della mia scrivania, cadono i fogli portandosi via la mia mediocrità e la frustrazione.
che per terra sembra che abbia nevicato, e tu calpesti le poche parole rinnegate per venire a portarmi il tè.

i miei nasi provvisori.
nelle foto che ho ritrovato ti stavo per baciare, ti respiravo con uno dei miei nasi.
il secondo credo, il più cubista di tutti, quello subito dopo l'incidente.
che sistemeremo anche i nostri profili, raddrizzeremo le costole e smusseremo questi zigomi da slava.

i miei cani di seconda mano.
quelli che alla prossima reincarnazione saranno già dei bambini, perché la sofferenza in questa vita li ha fatti evolvere in fretta.
siamo legati senza guinzaglio, ci unisce la dimestichezza con l'abbandono e la capacità di vivere al presente.
e il cane nero che ho comprato da uno spacciatore, la sera più buia di novembre, in riva al lago. il cane che ho amato di più, preso e perso, spero mi abbia dimenticata, spero che non smetta mai di odiarmi.




martedì 21 dicembre 2010

volevo solo pronunciarti.

ci veniamo incontro accelerando e frenando, divisi tra fretta e paura, come le macchine agli incroci di notte, quando il semaforo è giallo lampeggiante.
che stamattina ti ho visto ma non ho potuto sorriderti, perché il freddo mi strappava le labbra.
e tu vieni a parlarmi per allontanarmi. è un controsenso, è un ossimoro di intenti.
sei un'esca che dissuade, una calamita con i poli fusi insieme.
come quando ho sognato che mi sdraiavo su di te e ti dicevo no.
questo siamo, un'impossibilità possibile.
non so cosa fare con te, davvero.

io che volevo solo pronunciarti.
tenere il tuo nome in bocca come se fosse una cosa mia, una cosa naturale, che mi apparteneva come i denti, come la lingua, il palato.
poterti dire, doverti dire.
pronunciarti. come una qualsiasi parola della mia lingua.


mentre io e lui ci avvolgiamo nelle lenzuola metalliche, le mie lenzuola di lamiera, siamo bozzoli nelle coperte, crisalidi al contrario, ci addormentiamo farfalle e ci svegliamo vermi.
tra gli incubi e l'insonnia mi dice che non sa più cosa scegliere.
e io gli dico, resta sveglio che ci sono io.
e lui mi dice, tu ci sei anche dall'altra parte.
mi fissa senza vedermi.
eppure aveva gli occhi che mi lasciavano bruciature di sigaretta.
era l'uomo che intaccava le mie nevi perenni, e ora sta passando e non ha raccolto niente.

che dovremmo vivere per qualche tempo in due paesi diversi, e amarci tramite i corpi di estranei.
metterci un oceano di mezzo, che se un giorno ci venisse voglia di piangerci sapremmo dove buttare le lacrime per non farci scoprire.



ma io non sono come te, amore mio, io non ho difese.
sono una scrittrice, sono un calamaro.
la mia unica arma è l'inchiostro.
l'inchiostro e la fuga.

domenica 19 dicembre 2010

del mimo e di noi.

ti racconto la storia del mimo e la tua reazione mi delude.
poco e per un attimo soltanto, come la puntura di uno spillo.
diciamo che ormai non mi fa più male.
è come se me l'aspettassi, ci provo sempre, ma lo so.
non abbiamo lo stesso genere di sensibilità, e tu ora non ti sporgi più in avanti.
la mia fatica di spiegare, la tua fatica di capire.
comunicare con te è una lotta stanca.
come due combattenti sfiniti. i gesti lenti, i colpi esausti.
barcolliamo e lasciamo cadere.


era venuta mia mamma a milano, stavamo passando in galleria.
abbiamo visto due poliziotti multare un mimo.
era scena molto forte iconograficamente.
in mezzo alla folla in movimento, le tre figure ferme.
il mimo era minuto, un ragazzino. vestito di bianco, con il viso colorato di bianco.
i poliziotti erano imponenti, seri, le loro divise scure, le pistole, i manganelli.
il mimo era sceso dal suo piedistallo, e si era rimpicciolito. chiuso nelle spalle, a testa bassa. con l'espressione più triste di qualsiasi maschera triste.

ho tirato fuori dalla borsa una banconota, una banconota grossa.
ho detto a mia mamma, aspetta almeno che si allontanino.
lei l'ha presa ed è andata, no voglio che vedano, ha risposto.


e tu mi dici che sono garantista.
e ti sento parlare di estremismo, elemosine, racket, regole di occupazione del suolo pubblico...
ma guardalo, non faceva del male a nessuno.
non importunava i tuoi preziosi turisti ai tavoli, non vendeva le tue stupide borse contraffatte, né elemosinava sbattendoti in faccia un corpo scomodo.
cosa mi stai dicendo, dove sei?
no, non volevo raccontarti una buona azione.
me ne sbatto delle buone azioni, ho mandato avanti mia madre. lascio agli altri la gloria, non è quello che mi importa.
io stavo aprendoti all'equilibrio dell'universo.
stavo cercando di farti capire cosa intendo quando ti parlo dell'armonia.
l'insieme del tutto, la concatenazione di tutte le cose.
e gli errori e gli interventi riparatori, gli sbilanciamenti e i contrappesi, le offese e le scuse.

davanti a me, avevano oltraggiato l'arte.
punito l'artista, svilito la bellezza.
io non posso passare oltre come se niente fosse.
chiamami stupida, dì che sono pazza, dì che esagero, ma una cosa del genere mi ferisce dentro.

mia mamma gli ha allungato la mano, e il ragazzino non è riuscito nemmeno a sorriderle. aveva la bocca spalancata e gli occhi sgranati, più di qualsiasi espressione teatrale.
abbiamo ripreso a camminare per milano, ascoltando l'eco di pianeti lontani riprendere le loro orbite.

amore mio, perché non capisci.

giovedì 16 dicembre 2010

alla fine della notte.

e così ero alla fermata della 94 a congelare e ho pensato, chissà cosa mangia t. a colazione.
lo pensavo forte e così gliel'ho scritto, t cosa mangi tu a colazione?
e lui ha risposto subito, e mi ha descritto una colazione dolce, equilibrata, calma, completa.
proprio come lui.
e poi sulla 94 mi è venuto da pensare alle nostre, di colazioni, che erano come noi.
dolce e salato insieme, nello stesso boccone.
e a quel periodo furibondo dove la mia colazione era marlboro rossa e caffè amaro.
e a quel periodo irriverente dove la mia colazione coincideva con le vostre cene.
e a quando, non si è mai capito bene perché, bevevo il thé e lo vomitavo.
all'uovo sodo della mia coinquilina norvegese.
al protobiberon. maledetta anima irrisolta, te e le tue proteine solubili.
al bicchiere d'acqua del rubinetto di c. le mille volte che mi fermavo a dormire da lei nelle mille case di milano che ha passato. poi un caffè bevuto da entrambe nella stessa tazzina chissà poi perché. che anche se lei lo bonificava con lo zucchero a me piaceva lo stesso.
le colazioni comuniste, le colazioni tropicali.
ai rari cappucci e brioche presi nel bar vicino a casa sua, dove vedevo il fantasma di bukowski in ogni viso relitto, che io ci andavo senza reggiseno, con il rimmel spalmato in faccia e lui i pantaloni ancora sbottonati e nessuno ci guardava. me lo facevano con tanta schiuma e tanto cacao, eravamo di gran lunga la clientela più rispettabile.
a tutte le colazioni del primo risveglio insieme. quelle fondamentali prove del nove per capire se c'eravamo ancora o no.
vuoi un caffè? no devo scappare.
scappo, scappo proprio.


domenica 12 dicembre 2010

domenica notte.

quanto vorrei una vasca da bagno.
per ubriacarmici dentro, per poter fumare da sdraiata.
perché la schiuma non scivoli via, per andare sotto con la testa.
e mettere intorno le candele, e le dita nelle candele.
per farmi il bagno con il cappello in testa,
anche se poi tu me lo toglierai comunque, lo so.
perché leggere i miei libri sotto la doccia confonde i finali delle storie.
per farmi lavare, per stare dentro in tre.
per sentire l'acqua diventare fredda e avere voglia di uscire.

immergermi, come tu bagni l'orchidea.


mercoledì 8 dicembre 2010

il lupo.

quando ancora non parlavi italiano ci capivamo meglio, io e te.
e avevamo conversazioni più profonde.
quando ti ho insegnato a contare fino a dieci è stato molto divertente.
per me almeno. ma anche per te. per il farmacista meno, ma vabbè.
uno due tre cazzo cinque sei sette culo nove dieci.
che però tu sei svelto e l'hai capito troppo presto.
anche se ora mi dicono che continui a dire culotto, e io ogni volta devo ingoiare saliva salata per non urlare che lo so, che te l'ho insegnato io, che io e te non eravamo solo colleghi, che ho una cicatrice di tre centimetri che devo a te, e tu hai un mio quaderno nascosto da qualche parte a casa tua, qualche foto segreta e forcine disperse tra i cuscini del divano e le piastrelle della veranda e... e niente.
niente, niente.
non volevo dire niente.

scusa se non ho imparato niente nella tua lingua.
non è mi è mai capitato in vita mia di non riuscire nemmeno a riprodurre una sillaba.
so qualche frase in russo e pronunciavo correttamente anche il cinese.
ma con te è stato impossibile.
il suono della tua lingua è come un ululato.
qualcosa di lontano, di ancestrale, di misterioso.

e comunque, tu non la volevi nemmeno sentire.
tu sei venuto qui per dimenticartela, forse.
e comunque, noi ci capivamo.




martedì 7 dicembre 2010

l.g.

ma sai che viaggi mi son fatta anche oggi?!
sono qui, seduta a tavola davanti al mio pacchetto di crackers per cena, e mi devo tenere la fronte con la mano.
ho una specie di jet-lag da sogno diurno.
della serie, the vittoria cane entertainment è lieta di presentarvi...
e boom, missili di sogni ad occhi aperti che sfondano la stratosfera di milano.
giri di montagne russe tra vite immaginate assolutamente a caso, che poi non si può nemmeno tornare sulla terra e dire, bene, quello che ho visto mi piace, lavoriamoci e andiamocelo a prendere.
no.
qui si mescolano città, lingue, professioni, hobby, persone, amanti, case, tempi atmosferici e storici.
mamma mia.

è un fenomeno diffuso, lo so.
e io lo pratico quotidianamente.
credo ci sia stata giusto una manciata di giorni in cui non mi son fatta nemmeno un filmino in testa, ma perché in un filmino irreale c'ero dentro per davvero.
quelli sono forse i giorni peggiori.
perché testimoniano che si può. creano precedenti pesanti al tribunale del buonsenso.

comunque, oggi la situazione mi è scappata di mano, lo ammetto.
oggi ho sfiorato l'autismo.
credo che sia colpa di questo ponte di inattività, freddo buio e isolamento forzato.
sono tre giorni che non vedo nessuno.
il primo giorno sono scesa a spostarti la macchina.
ieri a buttare la spazzatura.
oggi non ho nemmeno aperto la porta di casa.

poi una mente libera ha bisogno di cose belle.
per una mente affamata non c'è differenza tra sogno e realtà.


domenica 5 dicembre 2010

pelle di tamburo, acqua increspata.

prima di partire mi hai impollinato per bene il cervello.
così, anche ora che sei dall'altra parte del mondo io sono qui a pensare a te, a parlare di te, a innamorare di te.

sei furbo.

mi hai presa mentre passavo, distratta.
mi hai seduta sulle tue ginocchia, dandoti le spalle. mi hai abbracciata stretta con le mie braccia e le tue.
mentre il giradischi passava de gregori, hai appoggiato la tua testa sulla mia schiena.
hai premuto la faccia sulla mia schiena, e mi hai cantato sottovoce pezzi di vetro.
e io la tua voce l'ho sentita dentro.
ero una cassa di risonanza che vibrava delle parole di de gregori e della tua voce.
la tua voce ruvida che era dentro, rimbalzava greve tra gli organi le ossa le membrane.
scuoteva dall'interno, io ero pelle tesa di tamburo, acqua increspata.

dio cristo.

nemmeno respiravo, per non farti smettere.




de gregori ha cantato ancora, ma noi non lo sentivamo già più.
poi il disco ha cominciato a girare a vuoto.
ha girato a vuoto fino al tramonto.



mercoledì 1 dicembre 2010

novembre, quello che ti sei preso.

stavo fumando una matita per le labbra. stavo ingrassando.
stavo parlando francese su un palco di teatro in una scena di un film.
stavo tornando da new york e vomitavo in business class.

stavi cambiando i tuoi colori, pelle più chiara, capelli più neri, labbra più viola ma a nessuno sembrava importasse.
stavi bevendo liquore di prugne su una casa galleggiante a staten island.
stavi vicino a me e mi dicevi: amami meno, ma amami più a lungo.

stavamo provando la scena con la truccatrice, nostra balia, nostra mamma, nostra banca.

sto pensando se mettere o no le immagini.
sto cercando di capire se è bene darvi anche delle immagini.
perché ci sono, e anche loro ne hanno da dire.

lunedì 15 novembre 2010

ballerina. (ballerina mia.)

mi hai perdonato anche quando avevo raccolto tutti soldi per venire a trovarti, e la sera prima ho perso la borsa, ho perso i documenti e ho lasciato andare via anche il treno, non sono nemmeno andata in stazione. mi hai perdonato la resa.
avevo messo insieme ogni singola moneta scavando nei fondi delle borse, nelle tasche dei jeans da lavare da mesi, dalle buste con scritto le cose per cui sarebbero serviti i soldi buenos aires libro papà zilla vet.
avevo preso tutto perché volevo comprarti dolci fiori sigarette e portarti nei ristoranti che di solito guardi da fuori e nei musei dove ci saremmo seduti a guardare le persone a farci guardare come opere come happening e in tutti i cinema e i mercati, e comperarti cose per la casa e per il tuo studio. volevo tornare senza un centesimo ma radere al suolo la città, e spaccarti l'asse dei ricordi tra il prima e il dopo me.

i miei sogni su di te sono fuochi d'artificio che mi scoppiano in mano.

vabbè. sarà per un'altra volta.
sarà solo un altro peccato che dovrò scontare, un'altra mancanza. l'ennesimo buco nel vuoto.


io nei tempi morti ho imparato un'altra lingua straniera.
sembra un lamento e ha un sapore tropicale.
era come se ce l'avessi già nel mio cervello.

martedì 9 novembre 2010

iris.

ho radunato il mio piccolo tesoro le candeline dei compleanni, i mozziconi delle feste passate, di cugini non nostri e matrimoni in cui lavoravamo nel catering e rubavamo il cibo per i giorni dopo, e dicevamo che avevamo dei cani ma i cani eravamo noi e tu ti incazzavi perché mangiavo anche gli avanzi dai piatti che sparecchiavo ma dio se ero magra, dio quanto ci scavava quella libertà dittatrice e fiera che ci eravamo messi addosso.

intorno al letto abbiamo acceso l'esercito di moccoli consumati, numeri colorati, sposi colati, un cimitero di vessilli ardenti per vedere nelle ombre sul muro gli origami del nostro amore.
anche se alla fine a fare luce nella stanza è sempre la scritta della banca e quei cazzo di neon data, ora, temperatura, data, ora, temperatura, data ora temperatura.

le piante stanno bene. sì, le bagno poco ma spesso.
mi sembra ci sia anche un nuovo germoglio ma forse mi sbaglio.
parlo al telefono con te mentre succhio un cucchiaino di miele, mi dici che miele caffè e vino rosso sono sempre l'unica cosa che c'è in cucina. e mi dici che faccio quel suono con la lingua come quando mi hai imboccato un granchio sul molo di san francisco.

di san francisco mi ricordo i barboni per strada, zombie inoffensivi, formiche lente, che si trascinano con il loro pezzo di pane stretto tra i denti seguendo la linea dei palazzi. e noi che sbagliamo bus e vediamo cose che decidiamo di non fotografare, non dire e non nominare più fra di noi.

nei silenzi che mi lasci penso che alla fine basta un momento, un attimo soltanto, un barlume di vulnerabilità nel mio nemico e io sono completamente disarmata. che se esce la debolezza della persona io implodo e mi rovescio e il filo spinato lo trasformo in stelle filanti, e le bombe in baci che schioccano sulle guance e sono fottuta, perdo ma non posso fare altrimenti.

e la bambina coi capelli blu mi si siede vicino.
ha una collana di alchechengi.
non ascoltava per davvero quella canzone, e ora si deve organizzare con le mie fotocopie.




lunedì 8 novembre 2010

i quaderni dell'equilibrio uno.

teneva una sigaretta al contrario e straparlava di foto hong kong sua madre modelle e chitarre.
faceva freddo, faceva buio, nessuno dei due era vestito a sufficienza, ed eravamo di un idealismo insospettabile, insopportabile, insostenibile.
e io continuavo a prendere la scossa dalle mie lampade monche, e la cosa mi sembrava molto più triste del fatto in sé. mi sembrava vivisezione di cavi e operazioni senza anestesia a piccole cassette di derivazione aperte sotto le mie dita incapaci e violente. mi sembrava uno stupro di piccole cose che volevano essere lasciate in pace, non volevano unirsi tra loro, non volevano sciogliere i propri nodi in cui si erano abbracciate strette, rinunciando a se stesse.
più piangevo più volevo la luce.
infierivo sui miei embrioni di luce e loro mi mordevano forte le mani.
hai visto i polpastrelli bruciati, ti hanno fatto paura gli occhi.
filtrava la pioggia, la sigaretta era umida noi eravamo già malati.
sulle ginocchia i nidi abbandonati, la muffa, cataplasmi di polvere.
mi dicevi non puoi andare avanti così, ti prego smettila, ma chi cazzo sei, la figlia dio?
avevo pensieri atroci, soffrivo la sofferenza di essere estranei, era un inferno.
mi abbracciavi, mi dicevi sei bruttissima così adesso basta.
torniamo giù.

lo sciroppo per la tosse che ci fa dormire tutta la domenica pomeriggio, coi nostri cani immaginari sul divano e quella radio argentina che si sente dal muro.

tutti progetti che non si sarebbero mai realizzati, non ci saremmo mai realizzati noi.
ma a noi non interessa, non è quello il punto.

sabato 23 ottobre 2010

undici.

mi compri un topolino invece di dylan dog, dicendomi che un po' di colore mi farebbe stare meglio. è una vecchia copia, bellissima. un numero edito nel mio stesso anno di nascita, e ci scommetto che non è un caso, anche se tu ti fingi allegramente sorpreso.
mi dici che l'hai scovato per caso, nell'edicola vicino al panettiere. e che per caso hai trovato anche questo fiore stranissimo, che ora mi stai porgendo. non potevo non portartelo, dici quasi giustificandoti, se tu fossi un fiore io ti immaginerei così. sento le mani fredde di chi è stato in giro in bici per un po', a cercare e raccogliere gli ingredienti per un risveglio perfetto.







apro, inspiro forte e richiudo subito.
come quei bambini poveri con i sacchetti di colla.

giovedì 2 settembre 2010

autodafé.

dove siete, occhi gentili?
cosa state facendo, nelle sale d'attesa del mio silenzio, per migliorarvi spiritualmente?

chiedo scusa, ma non ho pensieri, ho lapidi.

praticare la gentilezza come virtù e come necessità, per affrancarci dalla nostra dimensione.
la fermezza e l'irrigidimento della sensibilità, per non farsi perforare da questo mondo che uccide i poeti.
a victor jara, a ken saro-wiwa, ad armando valladares.
a chiunque sia morto per ricordarmi che possono spezzarmi le dita, ma non le parole.

e nello specchio non vedo una ragazza, ma una magistrale espressione di distanza.
bevo latte e liquore di amarene, misuro il caos senza interferire.
starò calma ancora per un po'.

quel poco che resta di noi due.
nella sera dei primi freddi, conferiamo dignità a una tovaglia, eleggendola nostra coperta.
sediamo vicini, fumando la stessa sigaretta a turno.
quando me la appoggi tra le labbra, chiudo gli occhi come se fosse un bacio.


stasera usciremo con gli amici di serie b.
le anime affini sono lontane, siamo rimasti soli.
i nostri simili li schiviamo, come quando abbassiamo gli occhi davanti agli specchi.

non arrendetevi.


venerdì 20 agosto 2010

carceri.

non voglio che mi pubblichi. come pensi di riuscire poi a difendermi?
è un avventato gesto d'amore, un travaglio a metà gestazione.
non lo fare.
portami a londra ancora un po', lasciami camminare da sola a lisbona.
dammi le città. dammi il calpestato. libri usati già sottolineati, le storie nelle storie.
non forzare le mie pagine bianche.
non profanare le mie prigioni.

l'ora dei lividi per me non è ancora arrivata, e mi risparmio su tutto.

risolvi i tuoi problemi, che i miei li tengo cari.

gli applausi hanno lo stesso suono delle sberle.

domenica 8 agosto 2010

milano, notte.

sui nostri soliloqui estivi cadono le prime ceneri dell'invariabilità.
ci inquiniamo il cervello di sogni di gloria e miraggi lusinghieri, così il reale non mette radici, e noi restiamo sempre sospesi.
le nostre visioni sono ancore che gettiamo verso l'alto, per rimanere incagliati a una prospettiva che ci tenga a galla.


ma il presente sfonda ogni giorno il terreno delle chimere. un oggi imperfetto invade il nostro futuro immaginato, e il suo popolo prezioso deve spostarsi ancora più lontano.

in ogni posto in cui vado io ci sono per metà.
scusa se ti sfaldi mentre mi parli.
devo seguire l'esodo incessante delle mie aspirazioni, prima che si perdano.
prima che mi perda io.

nei nostri soliloqui estivi ci spariamo razzi per richiamarci.
leggimi una canzone.
disegnami una parola.
bevimi una poesia.

che tanto domani sarà tutto uguale, perché nessuno dei due ha intenzione di rinunciare.


"pero cae la hora de la venganza, y te amo"
.

domenica 18 luglio 2010

conversazioni anaerobiche.

ho un'amico che disegna fumetti.
è così bravo nel creare mondi che riesce a dare una sistematina anche a questo.
la sua saggezza è come china, colora le persone con le parole.
roba che se parli con lui poi ti senti meglio, ti ritrovi con i contorni più marcati.
non cancella il nero esistenziale, ma sistema le tue ombre in modo che ti diano profondità, invece di oscurarti.
parole di speranza concreta tra i canti di guerra e i bollettini delle sconfitte.
discorsi che vorresti registrare e ascoltare ogni volta che ne hai bisogno.
ogni volta che ti accorgi dei bordi spessi della vignetta intorno a te, e ti senti imprigionato.

persone come lui segnano un punto a favore del vita.

e oggi che chattavamo io dovevo bere dei gran bicchieri d'acqua, perché non è mai facile.
essere messi di fronte alle verità costa sempre fatica, apnee e contrazioni.
si parla per metafore, per rendere ingurgitabili i concetti pesanti.
più metafore di un profeta.

e non c'è mai fine, ma solo rilanci verso l'alto.
meditazione, strumenti, talento, mediocrità, comodità, forma, sostanza...

"nel mio mondo di personaggi e super eroi in costume.. sei l'emblema dell'inquietudine e del conflitto."
anche nel quotidiano mondo di comparse e medi eroi.
il piccolo dizionario illustrato del dubbio e del dissidio.
il manuale delle giovani marmotte disperse.
la moneta con il mio profilo. testa disorientamento, croce volontà.

"non ti ho ancora affibbiato un potere ma hai un'attillatissima calzamaglia."

eccoci qua.
fuoco fuochino.



giovedì 15 luglio 2010

maschere.

hai la pelle di pesca e dentro il nocciolo spaccato a metà.
hai vent'anni e fai scardinare chi ti guarda.
hai l'innocenza di chi ti mette in guai seri.

a ferrara faceva troppo caldo per portarmi dietro la nikon.
ogni grammo di peso era insofferenza.
l'ho lasciata sul letto con il cellulare e il burrocacao, cose che finché tu non ci sarai saranno poco importanti.
poi è cominciata la gente e la musica, e un po' tutto mi è sembrato meno importante.

dietro al palco senza nikon, però, mi sentivo vagamente incompleta.
un po' nuda, un po' vana.
e mi son trovata a guardarvi tutti pupilla contro pupilla, senza un'inquadratura di protezione, un obiettivo di calibrata distanza.
così ci siamo guardati bene. stavolta anche voi avete visto me.
lo so, posso mettervi a fuoco anche senza macchina.
a mani nude.
a occhi nudi.

abbiamo fatto un po' di voli di ricognizione, poi ci siamo atterrati vicini.
noi umani non siamo molto diversi dai merli, dai cervi, dai gatti.
così ho conosciuto la persona dietro al musicista, e giù dal palco mi piacete tutti di più.
appoggia il microfono, io poso la penna.
veniamo in pace, vediamo cosa si può fare.

e parliamo di bestemmie negate e ipocrisie varie.
maschere in pubblico e maschere prestate.
collaborazioni, contaminazioni, continuazioni.
tatuaggi solo per la scusa di sfiorarsi.
c'eravate tutti, è stato un piacere.

e poi non abbiamo detto più niente.
ci siamo lasciati fare dalla musica.
dalle belle persone.
dalle premesse.

tutte le stelle sotto la tempesta.

mercoledì 14 luglio 2010

tu.

tutto ma non l'emozione.
non posso, vattene, non posso più.
ancora tu, e starò male tutto il giorno.

tu che eri mio.
tu che eri qualcosa di inaudito.
tu che eri il troppo, e io quella che aveva voluto sfondare i limiti.
che ci siamo incontrati nella terra di nessuno, in quel territorio inconcepibile appena fuori i confini della società.
oltre le barriere della coscienza, le colonne d'ercole del buonsenso.
il buio illuminato da fiamme e lampi.
la clandestinità, l'illegalità, il peccato.
che bello, amore mio, esserci.
consapevoli e presenti.
due persone erotiche in un mondo pornocratico. due narratori in un mondo di cronaca. due stronzi, due eroi.
abbiamo disprezzato la realtà, trascurato le regole dell'universo, riso e ringhiato in faccia alla vita.
eravamo noi. a sorriderci con una lametta tra i denti. a sbranarci a piccoli baci. a gridarci tenerezze crudeli e sussurrarci i peggiori insulti. la grazia e la perversione, le carezze e le torture, l'efferatezza delle nostre poesie.
pelle sotto le unghie, parole come febbre, la volontà e la certezza di essere inarrivabili.
eros e thanatos. eleganza e violenza. big ben e apocalisse.
tutto insieme, contemporaneamente.
ci siamo amati ed odiati, sposati e traditi, santificati e sputati.
e non eravamo più persone, ma rappresentazioni pure delle categorie primarie di amore, lotta, istinto di sopravvivenza e sopraffazione. piacere e dolore che insieme non hanno un nome perché il mondo non sa nemmeno che esista un sentimento che li coniuga entrambi in egual misura.
ed è sublime.
andare sempre oltre, rilanciare sempre, morirne.
icaro e il disprezzo, babele e l'affronto, noi e tutto il resto.
fino a dirsi addio, e non vedersi mai più.
l'atto d'amore estremo, il male assoluto.
creati e distrutti.


e ora che cosa resta?

penso al peso che ogni croce deve portare.
ho qualche cicatrice e qualche marea.
ho un aspetto, e tanto tempo per riabilitarmi.
non ne voglio più parlare.

ma tu vattene via, non ti avvicinare.
lasciami immobile in questa pace sottovuoto.


ora vivo come una cagna sterilizzata.
magra e pulita.
senza struggimenti.

domenica 27 giugno 2010

liuti e megattere, suoni di.

se c'è qualcosa che non ho voglia di fare, quella cosa sono io.
resto a spazzare il terrazzo dalle foglie di basilico e mi maledico.

qual è la cosa che ti fa più paura?
qual è la cosa che ti rende più felice?

possono anche durare un attimo, possono anche coincidere.
basta che tu me le dica, ho bisogno di puntini su questo piano cartesiano.
ho bisogno di averti qui, seduto accanto a me, manica contro manica, silenzio sommato al silenzio.

capitani ammainati chiusi nella stiva. marinai coraggiosi che ormai non chiedono più niente, e conducono questa nave anche se la rotta è la deriva.

l'importante è esserne tutti consapevoli.

scusa se parlo per metafore, scusa se intreccio la trama e da un filo ti porto un arabesco.
ma la vita, così come ce la confezionano, non mi piace.
i fatti li vivo, ma la cronaca non la voglio.
sapori amari, o insipidi, o bruciati.

se non mi condisci un po' la realtà, io non la mangio.

lunedì 21 giugno 2010

fiori di vetro.

il mio cane mi buca le mani mentre parliamo di progetti a brevi termine.
noi l'estate non la calcoliamo neanche, l'estate dura il tempo di dieci libri, o tre mattonate.
dopo che avrai letto proust -ma sei sicura che sia già il momento?- dopo che avrai letto proust, dicevo, sarà già di nuovo freddo e la tua pelle bianca si ritroverà a suo agio mimetizzata nella città.
ora ci separiamo solo qualche attimo, il tempo di cambiare delle cattive abitudini con delle altre più a buon mercato. tu sei la donna del giovane cantante che urla, e solo tu conosci la tua fatica e la tua pazienza. io mi sono trovata tra le braccia un mercante di seta e di drappi, mentre correvo dietro al cantautore e scrivevo frasi d'amore sui sottobicchieri. poesie come tagliole nel bosco.

ci sediamo sulla mia terrazza fiorita, e parliamo come se fumassimo sigarette. contemplazione e silenzio. guardami, è qui che annaffio i fiori e tengo lontane le emozioni.
ti dico che questa casa è molto bella e ci verrà molta gente.
vorrei che veniste tutti.
venite tutti.

poi in un secondo sentire il mondo scricchiolare, tutto l'allarme di questo pianeta chiaro dentro. l'urlo di mille voci, il mosaico di un milione di disastri, il pugno sul lobo.
dura un brivido e il muscolo si decontrae.

siamo sul titanic, a ballare in prima classe.

mentre io compongo quadri e tu elogi le mie lampade, dici che il bello ci salverà.
lo so. curo i dettagli.
tutto è inutile, ma niente è irrilevante.

venerdì 11 giugno 2010

piazza castello.

e così torno.
ciao occhi gentili.
le mie pupille sono grigio antracite, ho caldo.
salti mortali, evoluzioni aeree, sbandamenti di orbita.
in questo silenzio sono passata da tokyo a san paolo, da shanghai a rio de janeiro.
ping pong sull'emisfero per ricadergli tra le braccia nel centro di milano.

nella casa nuova oggi ho portato tutti i libri e le piante.
sono le prime piume nel nido.
domani i dischi.
i vecchi 78 giri del nonno sono la morfina per l'anima.
ho pianto e gridato come un'adolescente isterica davanti a una boy band.
che sfigata.
devo esserti sembrata eccessiva, e non hai parlato per un po'.
mentre scartavi i piatti io continuavo a piangere davanti al grammofono.
dio mio, ma cosa vuoi che ci faccia?
ho sbagliato epoca, non appartengo a questa storia.
è questo charleston graffiato dalla puntina la mia sigla.

comunque ti abitui alle mie stravanganze intime.
ti piace il fatto che nessuno sappia niente, e che da fuori io sia controllatissima.
poi sulla mensola nessuna foto e niente quadri.
quattro lettere di acciaio enormi.
una c, una a, una n e una e.

e noi zitti a guardare, il mondo che mi sto creando.

giovedì 13 maggio 2010

speranza autoimmune.

tra i tanti blocchi dello scrittore che già ho di mio, ora ti ci metti anche tu.
tu che sei un meccanismo sconosciuto, tanto complicato quanto insospettabile.
da una parte mi plachi, dall'altra mi spii.
e io non mi ricordo cosa stavo per scrivere, o non mi sembra più così urgente.

arrivo in ritardo.
sono in differita con i miei contenuti.
sono la traduttrice dei miei pensieri.

camminavo per il marais pensando alle solite cose.
se dio esiste, c'è qualcosa che non va tra di noi.
ci vuole troppa concentrazione per parlare con lui.
se davvero dio esiste, non ci ama come ci hanno insegnato.
o non ci ama come vorremmo essere amati noi, con presenza e tolleranza.
se dio esiste, costa fatica.

se l'universo ha un senso, non è studiando fisica che lo capiremmo.
se si espande o si ritrae, noi rimaniamo comunque piccoli.
piccoli nelle nostre scatole craniche, piccoli nei diametri dei nostri abbracci.
in qualunque modo sia cominciato o dove stia andando, siamo noi quelli che girano su se stessi.
al cern ci daranno numeri e parentesi fratte, o magari una mega esplosione, che sarà la risposta più esauriente.
l'universo è solo un'unità di misura.

arrivata a place des vosges mi girava la testa.
stavo pensando al senso di colpa, alla redenzione, a qualcosa che non riesco a ricordare.
il petrolio. l'euro greco. la prova bikini.

prima che il mondo tornasse a farmi paura, sei arrivato tu.
avevo una fame da lupi.

mercoledì 21 aprile 2010

la scollatura.

io da piccola non sognavo di fare l'astronauta, la ballerina o lo scienziato.
da piccola non rispondevo a questo genere di domande.
si poteva fare tutto, c'erano tutte le condizioni.
e comunque non avevo tempo per pensare a quelle cose.
avevo da scrivere.
scrivevo forte, ai tempi.

poi non so esattamente cosa sia successo.
come sempre, se me lo chiedi dopo, non riesco a farti la ricostruzione cronologica degli avvenimenti.
filastrocche interrotte, raffreddori e viaggi infiniti.
più vendette che traguardi.

se mi chiedi cosa voglio fare da grande ancora non lo so.
ma sento avvicinarsi la minaccia del condizionale passato.
dell'avrei potuto fare.
dell'avrei voluto essere.
quello scarto grammaticale tra desiderio e rimpianto.
il lasso di tempo scandito, gli ultimi granelli della clessidra, la lancetta che va dalla speranza alla disillusione.

anche accettare è una forma di sconfitta.

amore mio, ma quanto tempo sto sprecando.

ogni giorno che passa è un futuro che perdo.

martedì 13 aprile 2010

karasu.

a aoyama-bochi mi baci tra le tombe e i petali bianchi, e io la trovo una cosa molto bene impaginata.
ti dico che i ciliegi in fiore entrano a gamba tesa nella top ten delle cose splendide viste in vita, ma che amo molto anche questi corvi.
sono dei corvi neri enormi, sprezzanti, inquietanti nella loro bellezza.
akiko ci spiega che la sakura rappresenta la vita che nasce. la sua effimera durata. e i corvi neri sono simbolo di morte. presagio, memento.
tu scuoti la testa e con voce seria mi chiedi perchè sono ossessionata da questa idea della morte.
e dire che per una volta io non ci avevo nemmeno pensato.
almeno, non coscientemente.
ti rispondo che i rami fioriti senza corvi sarebbero solo romantici.
con i corvi sono sublimi, nel senso antico del termine.
roba da avere paura a guardare, ma non riuscire a distogliere lo sguardo.

non sei convinto.
non so se non capisci o non approvi.

poi passeggiamo per ueno. ti guardo di spalle, ti vedo da fuori.
inciampo in giapponesi ubriachi fradici e scomodi pensieri, che sono sempre lì a rovinarmi il campo visivo, come i granelli di polvere sull'obiettivo della mia nikon.
ti devo dire una cosa, ma non so esattamente cosa.

va tutto bene.

ci penso anche di notte, quando cammino da sola per le vie epilettiche, con il fuso orario e il quadernetto portati da casa.
è tutto vero, quello che ci hanno insegnato i cartoni animati giapponesi negli anni novanta.
anche le polpette di riso triangolari con il pezzo di alga per tenerle in mano.
a shinjuku compro felicità temporanee a poco prezzo.
compro pause.

va tutto bene.

nel ristorante a strapiombo sulla città ho le vertigini, e non è l'altezza, e non è il vino, e non sei tu.
è che sono vicinissima a capire qualcosa, e la forza della verità mi stordisce.
ma anche questa volta resto nel limbo del quasi.
riportami in albergo, amore mio. ho mal di testa, ho una stanchezza perenne.
come se i pensieri nella mia testa si formulassero in norvegese.

siamo soli a essere in due, e siamo in due a essere soli.
tu mi offri braccia forti e abbracci tenui, piatti pieni che ingrassano e non saziano, occhi buoni e sorrisi senza rughe.

un amore pacifico.


una tenera noia.




va tutto bene.

mercoledì 31 marzo 2010

nei tumulti delle civiltà. op cit.

me la sono cavata in quindici scatoloni, saltandoci sopra con le ginocchia.
la retorica della mia vita mi spezza la schiena.
e mi fa venire la febbre.
mentre mangio un gelato alla tachipirina al parco con c, mi rendo conto che i problemi del mondo si risolvono nella verbalizzazione.
diverse parole portano a diversi significati che disegnano diverse realtà.
anche se in verità l'azione è la stessa, detta in modo diverso cambia.
non è solo punto di vista, è anche enunciato.
quindi con una frase ballerina lei mi corregge la trama, e gli attori entrano in scena con maschere diverse.
più rilassate.

oh vita,
ti amo più di quanto ti capisco.

cosa posso dirvi, anime?
amatevi.
forse non avrà uno scopo, ma è una tra le attività migliori per passare indenni l'indifferenza del tempo.
create armonia.
la volgarità, l'arroganza, la violenza e il brutto sono le metastasi del tumore dell'inutilità dell'universo.
pensate sempre, e dubitate molto. questo può fare meno bene all'organismo, ma vi assicura il giusto distacco dal fango.

e poi accarezzate i cani.

domani trasloco dal naviglio a porta venezia.
passando per tokyo e shanghai.
eh sì.