mercoledì 31 marzo 2010

nei tumulti delle civiltà. op cit.

me la sono cavata in quindici scatoloni, saltandoci sopra con le ginocchia.
la retorica della mia vita mi spezza la schiena.
e mi fa venire la febbre.
mentre mangio un gelato alla tachipirina al parco con c, mi rendo conto che i problemi del mondo si risolvono nella verbalizzazione.
diverse parole portano a diversi significati che disegnano diverse realtà.
anche se in verità l'azione è la stessa, detta in modo diverso cambia.
non è solo punto di vista, è anche enunciato.
quindi con una frase ballerina lei mi corregge la trama, e gli attori entrano in scena con maschere diverse.
più rilassate.

oh vita,
ti amo più di quanto ti capisco.

cosa posso dirvi, anime?
amatevi.
forse non avrà uno scopo, ma è una tra le attività migliori per passare indenni l'indifferenza del tempo.
create armonia.
la volgarità, l'arroganza, la violenza e il brutto sono le metastasi del tumore dell'inutilità dell'universo.
pensate sempre, e dubitate molto. questo può fare meno bene all'organismo, ma vi assicura il giusto distacco dal fango.

e poi accarezzate i cani.

domani trasloco dal naviglio a porta venezia.
passando per tokyo e shanghai.
eh sì.

martedì 30 marzo 2010

tre cose distinte.

ricostruivo a piccoli frammenti la sua vita, nel modo più insospettabile e discreto.
raschiavo la superficie delle relazioni e poi ci mettevo un mobile sopra, così non se ne accorgeva nessuno.
sapevo dove aveva vissuto, con chi, cosa aveva provato. come si vestiva e cosa voleva.
ero arrivata a sapere il suo gusto di gelato preferito, il tic nervoso di suo zio e quell'incidente alla sua festa della comunione.
sapevo anche come respirava durante l'orgasmo.

pensate, non l'avevo neppure mai incontrata.

poi lui mi ha detto che trovava irresistibilmente sexy le mie magliette stropicciate, il mio modo di pronunciare le esse e quando mi asciugavo le lacrime con gli avambracci.

e il vuoto mi è sembrato un po' meno pieno di importanza.
ho abbandonato i miei personaggi non scritti, nel bel mezzo del loro copione bianco.
tutto si è diventato troppo buio per essere visto, fuori dal fascio di luce della sua torcia.


(prima di svegliarmi ho rifatto il sogno.
l'ho raccontato a mia mamma, soffiando sul caffè bollente a colazione.
lei ha detto solo: no, ti prego.)


(ero molto tranquilla, mentre mi sollevavo sul cornicione della mia nuova casa e mi lasciavo andare di sotto.)


(ma mamma, cristo dio, perché non capisci.
ero davvero serena.)

domenica 28 marzo 2010

il cotone del tuo amarmi.

non sono nemmeno atterrata che già sfrecciamo giù per la rambla.
la città ci offre il suo cielo migliore, e io mi asciugo al vento della cabrio la pioggia di milano tra i capelli.
vedrai, mi gridi, ti farà impazzire.
me volverà loca? ti urlo io.
no, boig, rispondi, cercando di pronunciare bene, qui si dice boig.
anche questa sai, amore mio. ma come fai?

a la boqueria poi, tu ovviamente conosci tutti.
io mi chiedo come sia possibile che la gente si ricordi di te.
tra i milioni di turisti e passanti, loro ti chiamano per nome.
ti avranno visto sì e no un paio di volte nella vita, ma ti contendono tra sorrisi e abbracci, ti omaggiano più di un buddha birmano.

mentre tengo in braccio una papaya, tre chili di prosciutto, un sacchetto di frutta secca e un gambero rosso crudo, e vedo quanto sei amato dalla gente, penso che devi essere davvero una bella persona.

non che non lo sapessi già, ma a volte mi commuove vederne gli effetti.

sei una bella persona.
tu lasci nel mondo un solco iridescente, e la gente che incroci sulla tua strada ti riconosce ti osanna, come i delfini sulla scia della nave.
sei un uomo buono.
fai del bene. tu produci il bene.
e io la so quella storia del bene che ritorna, ma in realtà mi stupisce sempre.

fai a pezzi il mio cinismo con il tuo vivere quotidiano.

poi seduti al pinotxo ti ritrovo, nella nostra forma intima e conosciuta.
juanito ci serve ogni ben di dio, ci versa il vino e ci imboccherebbe pure, se non lo stessi già facendo tu con me.
come stai? cosa hai fatto in questi giorni? ti sono mancato?
mentre i colori sfrecciano veloci ai bordi degli occhi, precipito nel buco nero delle tue pupille gentili, e sento il cotone del tuo amarmi ricoprire gli spigoli e le schegge delle mie incertezze.

solo così possiamo camminare uniti, senza farci male.



giovedì 25 marzo 2010

cerco persone da amare.

charlie brown diceva I need all the friends I can get.
probabilmente avrebbe avuto i cinquemila contatti facebook e sarebbe andato alle pizzate con i compagni delle medie.
oggi ho camminato in strada per ore e risposto più o meno a sguardi, domande, sorrisi. ogni volta che incrociavo qualcuno pensavo a chi fosse in realtà. a cosa avrebbe fatto una volta tornato a casa, cosa leggeva, come si sedeva a tavola, a chi rispondeva al telefono, la sua routine al mattino, come metteva le mani quando pensava.
mi dicevo, chissà se potrebbe essere mio amico.
chissà se potrebbe diventare una persona da amare.

la pura e semplice verità del mio esistere oggi.
cerco persone da amare.
I need all the friends I can love.

come il mio fruttivendolo al mercato coperto.
come l'oste di via rovello.
come la mia amica j, anima affine.

ho un surplus d'affetto da destinare a chi sa cosa farsene, e sono sempre aperti i colloqui.

è così difficile trovare persone tra la gente.



domenica 21 marzo 2010

le rane.

sotto la doccia ti ho insaponato i capelli, massaggiandoti lentamente il cranio.
stavo dietro di te, non ti vedevo ma sapevo immaginare la tua espressione.
scommetto che avevi gli occhi socchiusi.
poi ti ho risciacquato con calma e attenzione, e ti ho messo il balsamo, il mio.

a dieci metri dal suolo le nostre esistenze hanno la giusta dimensione.
si ridimensionano desideri e problemi, speranze e drammi in corso.
l'inutilità dell'individuo è direttamente proporzionale alla distanza da cui lo si osserva, e io mi sento sollevata dall'incarico del senso.
siamo tutti più vulnerabili, siamo tutti più volubili.
e le secrete cure che al viver tuo furon tempesta non sono altro che ininfluenti interferenze atmosferiche.
a questo pensavo passeggiando per brera, guardando all'insù.

ti ho massaggiato le ciocche una ad una, sciogliendo i nodi tra le dita.
poi con la schiuma ti ho disegnato scie.
dalle tempie alla testa, scivolando sulla nuca e il collo, allargando sulle spalle e giù per tutta la schiena.
lì ti ho preso e ti ho girato, e mi sono inginocchiata.

un giorno, se anche io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, ti prometto che sederò con te a condividere le poesie imparate a memoria.
e ti spiegherò bene la mia teoria sul teatro.
ti parlerò delle città che ho vissuto e di quelle che ho immaginato.
e ti racconterò tutto quello che so sull'astronomia e quel poco che ho capito di me.
delle risposte che non mi sono mai data, delle sensazioni dei traguardi, delle scorciatoie dal nulla verso al nulla, del prezzo che ho dovuto pagare.
sarà dolcissimo.
la comunione, l'oblio.

mentre l'acqua ci benediceva, non ti vedevo ma sapevo immaginare la tua espressione.
scommetto che avevi gli occhi socchiusi.


martedì 16 marzo 2010

quando ci malmenavamo, oh! come eravamo felici.

rivendico il mio diritto al malessere.
il mio diritto all'asocialità.
al cellophane di uno sguardo astioso che tiene lontano gli altri umani.

in verità vi vorrei tutti attorno. un abbraccio collettivo per salvarmi dall'ansia. ma alla fine le uniche due braccia che mi possano davvero aiutare sono le mie, e le sto usando per tutt'altri scopi.
sto comprimendo un anno e tre mesi di via valenza 17 in scatoloni da discount e sacchi neri. mai metafora fu più appropriata.
la rapida svalutazione della mia vita da giovane.

piango. diamine se sto piangendo.
trascuro deliberatamente le cause e guardo gli effetti: lacrime e rimmel su magliette e vestiti che nemmeno mi ricordavo di avere.
barricate nelle profondità dell'armadio, custodi di profumi e macchie di un'era geologica trapassata. si può forse non piangere? a me viene da morirne.
comincio a pensare che per correttezza intellettuale non dovrebbero più essere indossate, né tanto meno trasportate nella nuova casa. come certi pensieri, come certe speranze che mi ero messa addosso, ormai fuori moda, ormai troppo strette.

come quando mia mamma faceva i sacchi di vestiti da dare ai bambini della bosnia.
in questa scatola mi abbandono in mezzo alla strada.
mi sto amputando.


lunedì 8 marzo 2010

cormorani.

le parole che mi dici sono difficili da capire.
e io che ti siedo davanti in questo tavolino di un caffè affollato vorrei che il cameriere mi portasse dei foglietti illustrativi, dei depliant con le varie offerte, con la mia faccia di qualche anno più vecchia, sorridente o triste, svuotata o spaventosamente consapevole, così da poter scegliere, così da poterti rispondere a voce alta.

per non iniziare mai, rimando sempre a domani.
per non finire mai, rimando sempre di qualche ora.

è tutto sfocato.
a te piace buttarti e sfracellarti.
tanto cos'hai da perdere?

sei contemporaneo.

io sono una vetrina di mappamondi, teschi, piume di struzzo e scrigni tarlati.
cilindri di velluto coperti di ragnatele e maschere di venezia.
pentagrammi ingialliti, pipe di oppio e ciotole di argento, per cani di polvere.
mappe antiche e vetri rotti e anelli per dita piccole.

oggi siamo gabbiani superbi sugli alisei.
oggi siamo cormorani in un mare di petrolio.

ormai siamo troppo giovani per fare queste cose, amore mio.

giovedì 4 marzo 2010

o bianco? non ricordo.

a colazione uova fritte e caffè nero.
come i detective negli hardboiled anni ottanta che tanto ti piacciono.
la verità è che non riesco più a tornare italiana, e il cappuccino lo ordino a cena.
siamo stati via così tanto tempo che il cibo in frigorifero è marcito e gli amici si sono dimenticati di noi.

il nostro piccolo mondo antico deteriorato in tutta fretta.

e ora?
mi affaccio dal dionisiaco al pianeta buio solo per un attimo.
vivo in un olimpo di tempo sospeso.

ho così tante cose da dire che rimango in silenzio.

come la somma di tutti i colori che fa nero.