giovedì 30 dicembre 2010

ocho cuadros.

mi dice che il giorno che aveva imparato la sua lingua lui si era ammalato.
il primo giorno in cui lei era riuscita a parlargli in spagnolo lui si era steso a letto e non si era più alzato.
il sole ci sta sopra come la lampada dei pulcini, io mi genufletto davanti alle tombe per cercare l'inquadratura e lei mi dice che da allora lo spagnolo non l'ha parlato più.
me lo dice in spagnolo e mi indica una lapide diversa da prima.
la guardo e vedo una tenacia folle e disperata sotto la sua vecchiaia.
l'amore l'ha portata fin qui, il dolore non la lascia andare via.


a me piacciono i cimiteri, ti dico, non i centri commerciali. i centri commerciali mi fanno paura, mi ricordano la natura della condizione umana, mi fanno pensare che un giorno potrei finirci dentro anche io.
ma tu non hai voglia di parlare e mentre risaliamo san telmo stiamo zitti un po'. i miei piedi si sfaldano in scarpe inadeguate, un signore ci cammina accanto cantando un tango a bocca chiusa, la melodia mormorata, negata agli altri, protetta dal rumore delle cose fuori.

gli uomini hanno camicie a quadri, le donne indossano occhi neri e bambini. i chioschi con le arance fanno le spremute, e le case di lamiera colorata sono state dipinte con le vernici avanzate dalle chiatte del porto.
nel quartiere pericoloso dove tu non vuoi farmi andare.
che la distanza tra noi e le cose che vogliamo vedere è sempre ocho cuadros, ci dicono, anche se poi sono venti o sono tre.
anche se poi comunque tu mi seguiresti dappertutto, come io seguo te ovunque.


il loro spagnolo morbido e sbiascicato, come se fossero appena svegli, come se fossero ubriachi.
un paese che ha ricacciato in mare invasori madrepatria e oppositori. un paese che non c'è la fatta. vende caramelle e case al prezzo di un'offerta libera.

e cammino per le strade deserte dell'alba, sono le sei di mattina qui.
cani e casse di bottiglie vuote.
l'odore dolciastro di liquori e di asfalto caldo. l'odore che riconosco.
il comune denominatore del mondo, ci scorre lo stesso alcol nelle vene.
nell'alcol siamo consanguinei.

giovedì 23 dicembre 2010

passaggi.

i miei fogli bianchi.
il perenne autunno della mia scrivania, cadono i fogli portandosi via la mia mediocrità e la frustrazione.
che per terra sembra che abbia nevicato, e tu calpesti le poche parole rinnegate per venire a portarmi il tè.

i miei nasi provvisori.
nelle foto che ho ritrovato ti stavo per baciare, ti respiravo con uno dei miei nasi.
il secondo credo, il più cubista di tutti, quello subito dopo l'incidente.
che sistemeremo anche i nostri profili, raddrizzeremo le costole e smusseremo questi zigomi da slava.

i miei cani di seconda mano.
quelli che alla prossima reincarnazione saranno già dei bambini, perché la sofferenza in questa vita li ha fatti evolvere in fretta.
siamo legati senza guinzaglio, ci unisce la dimestichezza con l'abbandono e la capacità di vivere al presente.
e il cane nero che ho comprato da uno spacciatore, la sera più buia di novembre, in riva al lago. il cane che ho amato di più, preso e perso, spero mi abbia dimenticata, spero che non smetta mai di odiarmi.




martedì 21 dicembre 2010

volevo solo pronunciarti.

ci veniamo incontro accelerando e frenando, divisi tra fretta e paura, come le macchine agli incroci di notte, quando il semaforo è giallo lampeggiante.
che stamattina ti ho visto ma non ho potuto sorriderti, perché il freddo mi strappava le labbra.
e tu vieni a parlarmi per allontanarmi. è un controsenso, è un ossimoro di intenti.
sei un'esca che dissuade, una calamita con i poli fusi insieme.
come quando ho sognato che mi sdraiavo su di te e ti dicevo no.
questo siamo, un'impossibilità possibile.
non so cosa fare con te, davvero.

io che volevo solo pronunciarti.
tenere il tuo nome in bocca come se fosse una cosa mia, una cosa naturale, che mi apparteneva come i denti, come la lingua, il palato.
poterti dire, doverti dire.
pronunciarti. come una qualsiasi parola della mia lingua.


mentre io e lui ci avvolgiamo nelle lenzuola metalliche, le mie lenzuola di lamiera, siamo bozzoli nelle coperte, crisalidi al contrario, ci addormentiamo farfalle e ci svegliamo vermi.
tra gli incubi e l'insonnia mi dice che non sa più cosa scegliere.
e io gli dico, resta sveglio che ci sono io.
e lui mi dice, tu ci sei anche dall'altra parte.
mi fissa senza vedermi.
eppure aveva gli occhi che mi lasciavano bruciature di sigaretta.
era l'uomo che intaccava le mie nevi perenni, e ora sta passando e non ha raccolto niente.

che dovremmo vivere per qualche tempo in due paesi diversi, e amarci tramite i corpi di estranei.
metterci un oceano di mezzo, che se un giorno ci venisse voglia di piangerci sapremmo dove buttare le lacrime per non farci scoprire.



ma io non sono come te, amore mio, io non ho difese.
sono una scrittrice, sono un calamaro.
la mia unica arma è l'inchiostro.
l'inchiostro e la fuga.

domenica 19 dicembre 2010

del mimo e di noi.

ti racconto la storia del mimo e la tua reazione mi delude.
poco e per un attimo soltanto, come la puntura di uno spillo.
diciamo che ormai non mi fa più male.
è come se me l'aspettassi, ci provo sempre, ma lo so.
non abbiamo lo stesso genere di sensibilità, e tu ora non ti sporgi più in avanti.
la mia fatica di spiegare, la tua fatica di capire.
comunicare con te è una lotta stanca.
come due combattenti sfiniti. i gesti lenti, i colpi esausti.
barcolliamo e lasciamo cadere.


era venuta mia mamma a milano, stavamo passando in galleria.
abbiamo visto due poliziotti multare un mimo.
era scena molto forte iconograficamente.
in mezzo alla folla in movimento, le tre figure ferme.
il mimo era minuto, un ragazzino. vestito di bianco, con il viso colorato di bianco.
i poliziotti erano imponenti, seri, le loro divise scure, le pistole, i manganelli.
il mimo era sceso dal suo piedistallo, e si era rimpicciolito. chiuso nelle spalle, a testa bassa. con l'espressione più triste di qualsiasi maschera triste.

ho tirato fuori dalla borsa una banconota, una banconota grossa.
ho detto a mia mamma, aspetta almeno che si allontanino.
lei l'ha presa ed è andata, no voglio che vedano, ha risposto.


e tu mi dici che sono garantista.
e ti sento parlare di estremismo, elemosine, racket, regole di occupazione del suolo pubblico...
ma guardalo, non faceva del male a nessuno.
non importunava i tuoi preziosi turisti ai tavoli, non vendeva le tue stupide borse contraffatte, né elemosinava sbattendoti in faccia un corpo scomodo.
cosa mi stai dicendo, dove sei?
no, non volevo raccontarti una buona azione.
me ne sbatto delle buone azioni, ho mandato avanti mia madre. lascio agli altri la gloria, non è quello che mi importa.
io stavo aprendoti all'equilibrio dell'universo.
stavo cercando di farti capire cosa intendo quando ti parlo dell'armonia.
l'insieme del tutto, la concatenazione di tutte le cose.
e gli errori e gli interventi riparatori, gli sbilanciamenti e i contrappesi, le offese e le scuse.

davanti a me, avevano oltraggiato l'arte.
punito l'artista, svilito la bellezza.
io non posso passare oltre come se niente fosse.
chiamami stupida, dì che sono pazza, dì che esagero, ma una cosa del genere mi ferisce dentro.

mia mamma gli ha allungato la mano, e il ragazzino non è riuscito nemmeno a sorriderle. aveva la bocca spalancata e gli occhi sgranati, più di qualsiasi espressione teatrale.
abbiamo ripreso a camminare per milano, ascoltando l'eco di pianeti lontani riprendere le loro orbite.

amore mio, perché non capisci.

giovedì 16 dicembre 2010

alla fine della notte.

e così ero alla fermata della 94 a congelare e ho pensato, chissà cosa mangia t. a colazione.
lo pensavo forte e così gliel'ho scritto, t cosa mangi tu a colazione?
e lui ha risposto subito, e mi ha descritto una colazione dolce, equilibrata, calma, completa.
proprio come lui.
e poi sulla 94 mi è venuto da pensare alle nostre, di colazioni, che erano come noi.
dolce e salato insieme, nello stesso boccone.
e a quel periodo furibondo dove la mia colazione era marlboro rossa e caffè amaro.
e a quel periodo irriverente dove la mia colazione coincideva con le vostre cene.
e a quando, non si è mai capito bene perché, bevevo il thé e lo vomitavo.
all'uovo sodo della mia coinquilina norvegese.
al protobiberon. maledetta anima irrisolta, te e le tue proteine solubili.
al bicchiere d'acqua del rubinetto di c. le mille volte che mi fermavo a dormire da lei nelle mille case di milano che ha passato. poi un caffè bevuto da entrambe nella stessa tazzina chissà poi perché. che anche se lei lo bonificava con lo zucchero a me piaceva lo stesso.
le colazioni comuniste, le colazioni tropicali.
ai rari cappucci e brioche presi nel bar vicino a casa sua, dove vedevo il fantasma di bukowski in ogni viso relitto, che io ci andavo senza reggiseno, con il rimmel spalmato in faccia e lui i pantaloni ancora sbottonati e nessuno ci guardava. me lo facevano con tanta schiuma e tanto cacao, eravamo di gran lunga la clientela più rispettabile.
a tutte le colazioni del primo risveglio insieme. quelle fondamentali prove del nove per capire se c'eravamo ancora o no.
vuoi un caffè? no devo scappare.
scappo, scappo proprio.


domenica 12 dicembre 2010

domenica notte.

quanto vorrei una vasca da bagno.
per ubriacarmici dentro, per poter fumare da sdraiata.
perché la schiuma non scivoli via, per andare sotto con la testa.
e mettere intorno le candele, e le dita nelle candele.
per farmi il bagno con il cappello in testa,
anche se poi tu me lo toglierai comunque, lo so.
perché leggere i miei libri sotto la doccia confonde i finali delle storie.
per farmi lavare, per stare dentro in tre.
per sentire l'acqua diventare fredda e avere voglia di uscire.

immergermi, come tu bagni l'orchidea.


mercoledì 8 dicembre 2010

il lupo.

quando ancora non parlavi italiano ci capivamo meglio, io e te.
e avevamo conversazioni più profonde.
quando ti ho insegnato a contare fino a dieci è stato molto divertente.
per me almeno. ma anche per te. per il farmacista meno, ma vabbè.
uno due tre cazzo cinque sei sette culo nove dieci.
che però tu sei svelto e l'hai capito troppo presto.
anche se ora mi dicono che continui a dire culotto, e io ogni volta devo ingoiare saliva salata per non urlare che lo so, che te l'ho insegnato io, che io e te non eravamo solo colleghi, che ho una cicatrice di tre centimetri che devo a te, e tu hai un mio quaderno nascosto da qualche parte a casa tua, qualche foto segreta e forcine disperse tra i cuscini del divano e le piastrelle della veranda e... e niente.
niente, niente.
non volevo dire niente.

scusa se non ho imparato niente nella tua lingua.
non è mi è mai capitato in vita mia di non riuscire nemmeno a riprodurre una sillaba.
so qualche frase in russo e pronunciavo correttamente anche il cinese.
ma con te è stato impossibile.
il suono della tua lingua è come un ululato.
qualcosa di lontano, di ancestrale, di misterioso.

e comunque, tu non la volevi nemmeno sentire.
tu sei venuto qui per dimenticartela, forse.
e comunque, noi ci capivamo.




martedì 7 dicembre 2010

l.g.

ma sai che viaggi mi son fatta anche oggi?!
sono qui, seduta a tavola davanti al mio pacchetto di crackers per cena, e mi devo tenere la fronte con la mano.
ho una specie di jet-lag da sogno diurno.
della serie, the vittoria cane entertainment è lieta di presentarvi...
e boom, missili di sogni ad occhi aperti che sfondano la stratosfera di milano.
giri di montagne russe tra vite immaginate assolutamente a caso, che poi non si può nemmeno tornare sulla terra e dire, bene, quello che ho visto mi piace, lavoriamoci e andiamocelo a prendere.
no.
qui si mescolano città, lingue, professioni, hobby, persone, amanti, case, tempi atmosferici e storici.
mamma mia.

è un fenomeno diffuso, lo so.
e io lo pratico quotidianamente.
credo ci sia stata giusto una manciata di giorni in cui non mi son fatta nemmeno un filmino in testa, ma perché in un filmino irreale c'ero dentro per davvero.
quelli sono forse i giorni peggiori.
perché testimoniano che si può. creano precedenti pesanti al tribunale del buonsenso.

comunque, oggi la situazione mi è scappata di mano, lo ammetto.
oggi ho sfiorato l'autismo.
credo che sia colpa di questo ponte di inattività, freddo buio e isolamento forzato.
sono tre giorni che non vedo nessuno.
il primo giorno sono scesa a spostarti la macchina.
ieri a buttare la spazzatura.
oggi non ho nemmeno aperto la porta di casa.

poi una mente libera ha bisogno di cose belle.
per una mente affamata non c'è differenza tra sogno e realtà.


domenica 5 dicembre 2010

pelle di tamburo, acqua increspata.

prima di partire mi hai impollinato per bene il cervello.
così, anche ora che sei dall'altra parte del mondo io sono qui a pensare a te, a parlare di te, a innamorare di te.

sei furbo.

mi hai presa mentre passavo, distratta.
mi hai seduta sulle tue ginocchia, dandoti le spalle. mi hai abbracciata stretta con le mie braccia e le tue.
mentre il giradischi passava de gregori, hai appoggiato la tua testa sulla mia schiena.
hai premuto la faccia sulla mia schiena, e mi hai cantato sottovoce pezzi di vetro.
e io la tua voce l'ho sentita dentro.
ero una cassa di risonanza che vibrava delle parole di de gregori e della tua voce.
la tua voce ruvida che era dentro, rimbalzava greve tra gli organi le ossa le membrane.
scuoteva dall'interno, io ero pelle tesa di tamburo, acqua increspata.

dio cristo.

nemmeno respiravo, per non farti smettere.




de gregori ha cantato ancora, ma noi non lo sentivamo già più.
poi il disco ha cominciato a girare a vuoto.
ha girato a vuoto fino al tramonto.



mercoledì 1 dicembre 2010

novembre, quello che ti sei preso.

stavo fumando una matita per le labbra. stavo ingrassando.
stavo parlando francese su un palco di teatro in una scena di un film.
stavo tornando da new york e vomitavo in business class.

stavi cambiando i tuoi colori, pelle più chiara, capelli più neri, labbra più viola ma a nessuno sembrava importasse.
stavi bevendo liquore di prugne su una casa galleggiante a staten island.
stavi vicino a me e mi dicevi: amami meno, ma amami più a lungo.

stavamo provando la scena con la truccatrice, nostra balia, nostra mamma, nostra banca.

sto pensando se mettere o no le immagini.
sto cercando di capire se è bene darvi anche delle immagini.
perché ci sono, e anche loro ne hanno da dire.

lunedì 15 novembre 2010

ballerina. (ballerina mia.)

mi hai perdonato anche quando avevo raccolto tutti soldi per venire a trovarti, e la sera prima ho perso la borsa, ho perso i documenti e ho lasciato andare via anche il treno, non sono nemmeno andata in stazione. mi hai perdonato la resa.
avevo messo insieme ogni singola moneta scavando nei fondi delle borse, nelle tasche dei jeans da lavare da mesi, dalle buste con scritto le cose per cui sarebbero serviti i soldi buenos aires libro papà zilla vet.
avevo preso tutto perché volevo comprarti dolci fiori sigarette e portarti nei ristoranti che di solito guardi da fuori e nei musei dove ci saremmo seduti a guardare le persone a farci guardare come opere come happening e in tutti i cinema e i mercati, e comperarti cose per la casa e per il tuo studio. volevo tornare senza un centesimo ma radere al suolo la città, e spaccarti l'asse dei ricordi tra il prima e il dopo me.

i miei sogni su di te sono fuochi d'artificio che mi scoppiano in mano.

vabbè. sarà per un'altra volta.
sarà solo un altro peccato che dovrò scontare, un'altra mancanza. l'ennesimo buco nel vuoto.


io nei tempi morti ho imparato un'altra lingua straniera.
sembra un lamento e ha un sapore tropicale.
era come se ce l'avessi già nel mio cervello.

martedì 9 novembre 2010

iris.

ho radunato il mio piccolo tesoro le candeline dei compleanni, i mozziconi delle feste passate, di cugini non nostri e matrimoni in cui lavoravamo nel catering e rubavamo il cibo per i giorni dopo, e dicevamo che avevamo dei cani ma i cani eravamo noi e tu ti incazzavi perché mangiavo anche gli avanzi dai piatti che sparecchiavo ma dio se ero magra, dio quanto ci scavava quella libertà dittatrice e fiera che ci eravamo messi addosso.

intorno al letto abbiamo acceso l'esercito di moccoli consumati, numeri colorati, sposi colati, un cimitero di vessilli ardenti per vedere nelle ombre sul muro gli origami del nostro amore.
anche se alla fine a fare luce nella stanza è sempre la scritta della banca e quei cazzo di neon data, ora, temperatura, data, ora, temperatura, data ora temperatura.

le piante stanno bene. sì, le bagno poco ma spesso.
mi sembra ci sia anche un nuovo germoglio ma forse mi sbaglio.
parlo al telefono con te mentre succhio un cucchiaino di miele, mi dici che miele caffè e vino rosso sono sempre l'unica cosa che c'è in cucina. e mi dici che faccio quel suono con la lingua come quando mi hai imboccato un granchio sul molo di san francisco.

di san francisco mi ricordo i barboni per strada, zombie inoffensivi, formiche lente, che si trascinano con il loro pezzo di pane stretto tra i denti seguendo la linea dei palazzi. e noi che sbagliamo bus e vediamo cose che decidiamo di non fotografare, non dire e non nominare più fra di noi.

nei silenzi che mi lasci penso che alla fine basta un momento, un attimo soltanto, un barlume di vulnerabilità nel mio nemico e io sono completamente disarmata. che se esce la debolezza della persona io implodo e mi rovescio e il filo spinato lo trasformo in stelle filanti, e le bombe in baci che schioccano sulle guance e sono fottuta, perdo ma non posso fare altrimenti.

e la bambina coi capelli blu mi si siede vicino.
ha una collana di alchechengi.
non ascoltava per davvero quella canzone, e ora si deve organizzare con le mie fotocopie.




lunedì 8 novembre 2010

i quaderni dell'equilibrio uno.

teneva una sigaretta al contrario e straparlava di foto hong kong sua madre modelle e chitarre.
faceva freddo, faceva buio, nessuno dei due era vestito a sufficienza, ed eravamo di un idealismo insospettabile, insopportabile, insostenibile.
e io continuavo a prendere la scossa dalle mie lampade monche, e la cosa mi sembrava molto più triste del fatto in sé. mi sembrava vivisezione di cavi e operazioni senza anestesia a piccole cassette di derivazione aperte sotto le mie dita incapaci e violente. mi sembrava uno stupro di piccole cose che volevano essere lasciate in pace, non volevano unirsi tra loro, non volevano sciogliere i propri nodi in cui si erano abbracciate strette, rinunciando a se stesse.
più piangevo più volevo la luce.
infierivo sui miei embrioni di luce e loro mi mordevano forte le mani.
hai visto i polpastrelli bruciati, ti hanno fatto paura gli occhi.
filtrava la pioggia, la sigaretta era umida noi eravamo già malati.
sulle ginocchia i nidi abbandonati, la muffa, cataplasmi di polvere.
mi dicevi non puoi andare avanti così, ti prego smettila, ma chi cazzo sei, la figlia dio?
avevo pensieri atroci, soffrivo la sofferenza di essere estranei, era un inferno.
mi abbracciavi, mi dicevi sei bruttissima così adesso basta.
torniamo giù.

lo sciroppo per la tosse che ci fa dormire tutta la domenica pomeriggio, coi nostri cani immaginari sul divano e quella radio argentina che si sente dal muro.

tutti progetti che non si sarebbero mai realizzati, non ci saremmo mai realizzati noi.
ma a noi non interessa, non è quello il punto.

sabato 23 ottobre 2010

undici.

mi compri un topolino invece di dylan dog, dicendomi che un po' di colore mi farebbe stare meglio. è una vecchia copia, bellissima. un numero edito nel mio stesso anno di nascita, e ci scommetto che non è un caso, anche se tu ti fingi allegramente sorpreso.
mi dici che l'hai scovato per caso, nell'edicola vicino al panettiere. e che per caso hai trovato anche questo fiore stranissimo, che ora mi stai porgendo. non potevo non portartelo, dici quasi giustificandoti, se tu fossi un fiore io ti immaginerei così. sento le mani fredde di chi è stato in giro in bici per un po', a cercare e raccogliere gli ingredienti per un risveglio perfetto.







apro, inspiro forte e richiudo subito.
come quei bambini poveri con i sacchetti di colla.

giovedì 2 settembre 2010

autodafé.

dove siete, occhi gentili?
cosa state facendo, nelle sale d'attesa del mio silenzio, per migliorarvi spiritualmente?

chiedo scusa, ma non ho pensieri, ho lapidi.

praticare la gentilezza come virtù e come necessità, per affrancarci dalla nostra dimensione.
la fermezza e l'irrigidimento della sensibilità, per non farsi perforare da questo mondo che uccide i poeti.
a victor jara, a ken saro-wiwa, ad armando valladares.
a chiunque sia morto per ricordarmi che possono spezzarmi le dita, ma non le parole.

e nello specchio non vedo una ragazza, ma una magistrale espressione di distanza.
bevo latte e liquore di amarene, misuro il caos senza interferire.
starò calma ancora per un po'.

quel poco che resta di noi due.
nella sera dei primi freddi, conferiamo dignità a una tovaglia, eleggendola nostra coperta.
sediamo vicini, fumando la stessa sigaretta a turno.
quando me la appoggi tra le labbra, chiudo gli occhi come se fosse un bacio.


stasera usciremo con gli amici di serie b.
le anime affini sono lontane, siamo rimasti soli.
i nostri simili li schiviamo, come quando abbassiamo gli occhi davanti agli specchi.

non arrendetevi.


venerdì 20 agosto 2010

carceri.

non voglio che mi pubblichi. come pensi di riuscire poi a difendermi?
è un avventato gesto d'amore, un travaglio a metà gestazione.
non lo fare.
portami a londra ancora un po', lasciami camminare da sola a lisbona.
dammi le città. dammi il calpestato. libri usati già sottolineati, le storie nelle storie.
non forzare le mie pagine bianche.
non profanare le mie prigioni.

l'ora dei lividi per me non è ancora arrivata, e mi risparmio su tutto.

risolvi i tuoi problemi, che i miei li tengo cari.

gli applausi hanno lo stesso suono delle sberle.

domenica 8 agosto 2010

milano, notte.

sui nostri soliloqui estivi cadono le prime ceneri dell'invariabilità.
ci inquiniamo il cervello di sogni di gloria e miraggi lusinghieri, così il reale non mette radici, e noi restiamo sempre sospesi.
le nostre visioni sono ancore che gettiamo verso l'alto, per rimanere incagliati a una prospettiva che ci tenga a galla.


ma il presente sfonda ogni giorno il terreno delle chimere. un oggi imperfetto invade il nostro futuro immaginato, e il suo popolo prezioso deve spostarsi ancora più lontano.

in ogni posto in cui vado io ci sono per metà.
scusa se ti sfaldi mentre mi parli.
devo seguire l'esodo incessante delle mie aspirazioni, prima che si perdano.
prima che mi perda io.

nei nostri soliloqui estivi ci spariamo razzi per richiamarci.
leggimi una canzone.
disegnami una parola.
bevimi una poesia.

che tanto domani sarà tutto uguale, perché nessuno dei due ha intenzione di rinunciare.


"pero cae la hora de la venganza, y te amo"
.

domenica 18 luglio 2010

conversazioni anaerobiche.

ho un'amico che disegna fumetti.
è così bravo nel creare mondi che riesce a dare una sistematina anche a questo.
la sua saggezza è come china, colora le persone con le parole.
roba che se parli con lui poi ti senti meglio, ti ritrovi con i contorni più marcati.
non cancella il nero esistenziale, ma sistema le tue ombre in modo che ti diano profondità, invece di oscurarti.
parole di speranza concreta tra i canti di guerra e i bollettini delle sconfitte.
discorsi che vorresti registrare e ascoltare ogni volta che ne hai bisogno.
ogni volta che ti accorgi dei bordi spessi della vignetta intorno a te, e ti senti imprigionato.

persone come lui segnano un punto a favore del vita.

e oggi che chattavamo io dovevo bere dei gran bicchieri d'acqua, perché non è mai facile.
essere messi di fronte alle verità costa sempre fatica, apnee e contrazioni.
si parla per metafore, per rendere ingurgitabili i concetti pesanti.
più metafore di un profeta.

e non c'è mai fine, ma solo rilanci verso l'alto.
meditazione, strumenti, talento, mediocrità, comodità, forma, sostanza...

"nel mio mondo di personaggi e super eroi in costume.. sei l'emblema dell'inquietudine e del conflitto."
anche nel quotidiano mondo di comparse e medi eroi.
il piccolo dizionario illustrato del dubbio e del dissidio.
il manuale delle giovani marmotte disperse.
la moneta con il mio profilo. testa disorientamento, croce volontà.

"non ti ho ancora affibbiato un potere ma hai un'attillatissima calzamaglia."

eccoci qua.
fuoco fuochino.



giovedì 15 luglio 2010

maschere.

hai la pelle di pesca e dentro il nocciolo spaccato a metà.
hai vent'anni e fai scardinare chi ti guarda.
hai l'innocenza di chi ti mette in guai seri.

a ferrara faceva troppo caldo per portarmi dietro la nikon.
ogni grammo di peso era insofferenza.
l'ho lasciata sul letto con il cellulare e il burrocacao, cose che finché tu non ci sarai saranno poco importanti.
poi è cominciata la gente e la musica, e un po' tutto mi è sembrato meno importante.

dietro al palco senza nikon, però, mi sentivo vagamente incompleta.
un po' nuda, un po' vana.
e mi son trovata a guardarvi tutti pupilla contro pupilla, senza un'inquadratura di protezione, un obiettivo di calibrata distanza.
così ci siamo guardati bene. stavolta anche voi avete visto me.
lo so, posso mettervi a fuoco anche senza macchina.
a mani nude.
a occhi nudi.

abbiamo fatto un po' di voli di ricognizione, poi ci siamo atterrati vicini.
noi umani non siamo molto diversi dai merli, dai cervi, dai gatti.
così ho conosciuto la persona dietro al musicista, e giù dal palco mi piacete tutti di più.
appoggia il microfono, io poso la penna.
veniamo in pace, vediamo cosa si può fare.

e parliamo di bestemmie negate e ipocrisie varie.
maschere in pubblico e maschere prestate.
collaborazioni, contaminazioni, continuazioni.
tatuaggi solo per la scusa di sfiorarsi.
c'eravate tutti, è stato un piacere.

e poi non abbiamo detto più niente.
ci siamo lasciati fare dalla musica.
dalle belle persone.
dalle premesse.

tutte le stelle sotto la tempesta.

mercoledì 14 luglio 2010

tu.

tutto ma non l'emozione.
non posso, vattene, non posso più.
ancora tu, e starò male tutto il giorno.

tu che eri mio.
tu che eri qualcosa di inaudito.
tu che eri il troppo, e io quella che aveva voluto sfondare i limiti.
che ci siamo incontrati nella terra di nessuno, in quel territorio inconcepibile appena fuori i confini della società.
oltre le barriere della coscienza, le colonne d'ercole del buonsenso.
il buio illuminato da fiamme e lampi.
la clandestinità, l'illegalità, il peccato.
che bello, amore mio, esserci.
consapevoli e presenti.
due persone erotiche in un mondo pornocratico. due narratori in un mondo di cronaca. due stronzi, due eroi.
abbiamo disprezzato la realtà, trascurato le regole dell'universo, riso e ringhiato in faccia alla vita.
eravamo noi. a sorriderci con una lametta tra i denti. a sbranarci a piccoli baci. a gridarci tenerezze crudeli e sussurrarci i peggiori insulti. la grazia e la perversione, le carezze e le torture, l'efferatezza delle nostre poesie.
pelle sotto le unghie, parole come febbre, la volontà e la certezza di essere inarrivabili.
eros e thanatos. eleganza e violenza. big ben e apocalisse.
tutto insieme, contemporaneamente.
ci siamo amati ed odiati, sposati e traditi, santificati e sputati.
e non eravamo più persone, ma rappresentazioni pure delle categorie primarie di amore, lotta, istinto di sopravvivenza e sopraffazione. piacere e dolore che insieme non hanno un nome perché il mondo non sa nemmeno che esista un sentimento che li coniuga entrambi in egual misura.
ed è sublime.
andare sempre oltre, rilanciare sempre, morirne.
icaro e il disprezzo, babele e l'affronto, noi e tutto il resto.
fino a dirsi addio, e non vedersi mai più.
l'atto d'amore estremo, il male assoluto.
creati e distrutti.


e ora che cosa resta?

penso al peso che ogni croce deve portare.
ho qualche cicatrice e qualche marea.
ho un aspetto, e tanto tempo per riabilitarmi.
non ne voglio più parlare.

ma tu vattene via, non ti avvicinare.
lasciami immobile in questa pace sottovuoto.


ora vivo come una cagna sterilizzata.
magra e pulita.
senza struggimenti.

domenica 27 giugno 2010

liuti e megattere, suoni di.

se c'è qualcosa che non ho voglia di fare, quella cosa sono io.
resto a spazzare il terrazzo dalle foglie di basilico e mi maledico.

qual è la cosa che ti fa più paura?
qual è la cosa che ti rende più felice?

possono anche durare un attimo, possono anche coincidere.
basta che tu me le dica, ho bisogno di puntini su questo piano cartesiano.
ho bisogno di averti qui, seduto accanto a me, manica contro manica, silenzio sommato al silenzio.

capitani ammainati chiusi nella stiva. marinai coraggiosi che ormai non chiedono più niente, e conducono questa nave anche se la rotta è la deriva.

l'importante è esserne tutti consapevoli.

scusa se parlo per metafore, scusa se intreccio la trama e da un filo ti porto un arabesco.
ma la vita, così come ce la confezionano, non mi piace.
i fatti li vivo, ma la cronaca non la voglio.
sapori amari, o insipidi, o bruciati.

se non mi condisci un po' la realtà, io non la mangio.

lunedì 21 giugno 2010

fiori di vetro.

il mio cane mi buca le mani mentre parliamo di progetti a brevi termine.
noi l'estate non la calcoliamo neanche, l'estate dura il tempo di dieci libri, o tre mattonate.
dopo che avrai letto proust -ma sei sicura che sia già il momento?- dopo che avrai letto proust, dicevo, sarà già di nuovo freddo e la tua pelle bianca si ritroverà a suo agio mimetizzata nella città.
ora ci separiamo solo qualche attimo, il tempo di cambiare delle cattive abitudini con delle altre più a buon mercato. tu sei la donna del giovane cantante che urla, e solo tu conosci la tua fatica e la tua pazienza. io mi sono trovata tra le braccia un mercante di seta e di drappi, mentre correvo dietro al cantautore e scrivevo frasi d'amore sui sottobicchieri. poesie come tagliole nel bosco.

ci sediamo sulla mia terrazza fiorita, e parliamo come se fumassimo sigarette. contemplazione e silenzio. guardami, è qui che annaffio i fiori e tengo lontane le emozioni.
ti dico che questa casa è molto bella e ci verrà molta gente.
vorrei che veniste tutti.
venite tutti.

poi in un secondo sentire il mondo scricchiolare, tutto l'allarme di questo pianeta chiaro dentro. l'urlo di mille voci, il mosaico di un milione di disastri, il pugno sul lobo.
dura un brivido e il muscolo si decontrae.

siamo sul titanic, a ballare in prima classe.

mentre io compongo quadri e tu elogi le mie lampade, dici che il bello ci salverà.
lo so. curo i dettagli.
tutto è inutile, ma niente è irrilevante.

venerdì 11 giugno 2010

piazza castello.

e così torno.
ciao occhi gentili.
le mie pupille sono grigio antracite, ho caldo.
salti mortali, evoluzioni aeree, sbandamenti di orbita.
in questo silenzio sono passata da tokyo a san paolo, da shanghai a rio de janeiro.
ping pong sull'emisfero per ricadergli tra le braccia nel centro di milano.

nella casa nuova oggi ho portato tutti i libri e le piante.
sono le prime piume nel nido.
domani i dischi.
i vecchi 78 giri del nonno sono la morfina per l'anima.
ho pianto e gridato come un'adolescente isterica davanti a una boy band.
che sfigata.
devo esserti sembrata eccessiva, e non hai parlato per un po'.
mentre scartavi i piatti io continuavo a piangere davanti al grammofono.
dio mio, ma cosa vuoi che ci faccia?
ho sbagliato epoca, non appartengo a questa storia.
è questo charleston graffiato dalla puntina la mia sigla.

comunque ti abitui alle mie stravanganze intime.
ti piace il fatto che nessuno sappia niente, e che da fuori io sia controllatissima.
poi sulla mensola nessuna foto e niente quadri.
quattro lettere di acciaio enormi.
una c, una a, una n e una e.

e noi zitti a guardare, il mondo che mi sto creando.

giovedì 13 maggio 2010

speranza autoimmune.

tra i tanti blocchi dello scrittore che già ho di mio, ora ti ci metti anche tu.
tu che sei un meccanismo sconosciuto, tanto complicato quanto insospettabile.
da una parte mi plachi, dall'altra mi spii.
e io non mi ricordo cosa stavo per scrivere, o non mi sembra più così urgente.

arrivo in ritardo.
sono in differita con i miei contenuti.
sono la traduttrice dei miei pensieri.

camminavo per il marais pensando alle solite cose.
se dio esiste, c'è qualcosa che non va tra di noi.
ci vuole troppa concentrazione per parlare con lui.
se davvero dio esiste, non ci ama come ci hanno insegnato.
o non ci ama come vorremmo essere amati noi, con presenza e tolleranza.
se dio esiste, costa fatica.

se l'universo ha un senso, non è studiando fisica che lo capiremmo.
se si espande o si ritrae, noi rimaniamo comunque piccoli.
piccoli nelle nostre scatole craniche, piccoli nei diametri dei nostri abbracci.
in qualunque modo sia cominciato o dove stia andando, siamo noi quelli che girano su se stessi.
al cern ci daranno numeri e parentesi fratte, o magari una mega esplosione, che sarà la risposta più esauriente.
l'universo è solo un'unità di misura.

arrivata a place des vosges mi girava la testa.
stavo pensando al senso di colpa, alla redenzione, a qualcosa che non riesco a ricordare.
il petrolio. l'euro greco. la prova bikini.

prima che il mondo tornasse a farmi paura, sei arrivato tu.
avevo una fame da lupi.

mercoledì 21 aprile 2010

la scollatura.

io da piccola non sognavo di fare l'astronauta, la ballerina o lo scienziato.
da piccola non rispondevo a questo genere di domande.
si poteva fare tutto, c'erano tutte le condizioni.
e comunque non avevo tempo per pensare a quelle cose.
avevo da scrivere.
scrivevo forte, ai tempi.

poi non so esattamente cosa sia successo.
come sempre, se me lo chiedi dopo, non riesco a farti la ricostruzione cronologica degli avvenimenti.
filastrocche interrotte, raffreddori e viaggi infiniti.
più vendette che traguardi.

se mi chiedi cosa voglio fare da grande ancora non lo so.
ma sento avvicinarsi la minaccia del condizionale passato.
dell'avrei potuto fare.
dell'avrei voluto essere.
quello scarto grammaticale tra desiderio e rimpianto.
il lasso di tempo scandito, gli ultimi granelli della clessidra, la lancetta che va dalla speranza alla disillusione.

anche accettare è una forma di sconfitta.

amore mio, ma quanto tempo sto sprecando.

ogni giorno che passa è un futuro che perdo.

martedì 13 aprile 2010

karasu.

a aoyama-bochi mi baci tra le tombe e i petali bianchi, e io la trovo una cosa molto bene impaginata.
ti dico che i ciliegi in fiore entrano a gamba tesa nella top ten delle cose splendide viste in vita, ma che amo molto anche questi corvi.
sono dei corvi neri enormi, sprezzanti, inquietanti nella loro bellezza.
akiko ci spiega che la sakura rappresenta la vita che nasce. la sua effimera durata. e i corvi neri sono simbolo di morte. presagio, memento.
tu scuoti la testa e con voce seria mi chiedi perchè sono ossessionata da questa idea della morte.
e dire che per una volta io non ci avevo nemmeno pensato.
almeno, non coscientemente.
ti rispondo che i rami fioriti senza corvi sarebbero solo romantici.
con i corvi sono sublimi, nel senso antico del termine.
roba da avere paura a guardare, ma non riuscire a distogliere lo sguardo.

non sei convinto.
non so se non capisci o non approvi.

poi passeggiamo per ueno. ti guardo di spalle, ti vedo da fuori.
inciampo in giapponesi ubriachi fradici e scomodi pensieri, che sono sempre lì a rovinarmi il campo visivo, come i granelli di polvere sull'obiettivo della mia nikon.
ti devo dire una cosa, ma non so esattamente cosa.

va tutto bene.

ci penso anche di notte, quando cammino da sola per le vie epilettiche, con il fuso orario e il quadernetto portati da casa.
è tutto vero, quello che ci hanno insegnato i cartoni animati giapponesi negli anni novanta.
anche le polpette di riso triangolari con il pezzo di alga per tenerle in mano.
a shinjuku compro felicità temporanee a poco prezzo.
compro pause.

va tutto bene.

nel ristorante a strapiombo sulla città ho le vertigini, e non è l'altezza, e non è il vino, e non sei tu.
è che sono vicinissima a capire qualcosa, e la forza della verità mi stordisce.
ma anche questa volta resto nel limbo del quasi.
riportami in albergo, amore mio. ho mal di testa, ho una stanchezza perenne.
come se i pensieri nella mia testa si formulassero in norvegese.

siamo soli a essere in due, e siamo in due a essere soli.
tu mi offri braccia forti e abbracci tenui, piatti pieni che ingrassano e non saziano, occhi buoni e sorrisi senza rughe.

un amore pacifico.


una tenera noia.




va tutto bene.

mercoledì 31 marzo 2010

nei tumulti delle civiltà. op cit.

me la sono cavata in quindici scatoloni, saltandoci sopra con le ginocchia.
la retorica della mia vita mi spezza la schiena.
e mi fa venire la febbre.
mentre mangio un gelato alla tachipirina al parco con c, mi rendo conto che i problemi del mondo si risolvono nella verbalizzazione.
diverse parole portano a diversi significati che disegnano diverse realtà.
anche se in verità l'azione è la stessa, detta in modo diverso cambia.
non è solo punto di vista, è anche enunciato.
quindi con una frase ballerina lei mi corregge la trama, e gli attori entrano in scena con maschere diverse.
più rilassate.

oh vita,
ti amo più di quanto ti capisco.

cosa posso dirvi, anime?
amatevi.
forse non avrà uno scopo, ma è una tra le attività migliori per passare indenni l'indifferenza del tempo.
create armonia.
la volgarità, l'arroganza, la violenza e il brutto sono le metastasi del tumore dell'inutilità dell'universo.
pensate sempre, e dubitate molto. questo può fare meno bene all'organismo, ma vi assicura il giusto distacco dal fango.

e poi accarezzate i cani.

domani trasloco dal naviglio a porta venezia.
passando per tokyo e shanghai.
eh sì.

martedì 30 marzo 2010

tre cose distinte.

ricostruivo a piccoli frammenti la sua vita, nel modo più insospettabile e discreto.
raschiavo la superficie delle relazioni e poi ci mettevo un mobile sopra, così non se ne accorgeva nessuno.
sapevo dove aveva vissuto, con chi, cosa aveva provato. come si vestiva e cosa voleva.
ero arrivata a sapere il suo gusto di gelato preferito, il tic nervoso di suo zio e quell'incidente alla sua festa della comunione.
sapevo anche come respirava durante l'orgasmo.

pensate, non l'avevo neppure mai incontrata.

poi lui mi ha detto che trovava irresistibilmente sexy le mie magliette stropicciate, il mio modo di pronunciare le esse e quando mi asciugavo le lacrime con gli avambracci.

e il vuoto mi è sembrato un po' meno pieno di importanza.
ho abbandonato i miei personaggi non scritti, nel bel mezzo del loro copione bianco.
tutto si è diventato troppo buio per essere visto, fuori dal fascio di luce della sua torcia.


(prima di svegliarmi ho rifatto il sogno.
l'ho raccontato a mia mamma, soffiando sul caffè bollente a colazione.
lei ha detto solo: no, ti prego.)


(ero molto tranquilla, mentre mi sollevavo sul cornicione della mia nuova casa e mi lasciavo andare di sotto.)


(ma mamma, cristo dio, perché non capisci.
ero davvero serena.)

domenica 28 marzo 2010

il cotone del tuo amarmi.

non sono nemmeno atterrata che già sfrecciamo giù per la rambla.
la città ci offre il suo cielo migliore, e io mi asciugo al vento della cabrio la pioggia di milano tra i capelli.
vedrai, mi gridi, ti farà impazzire.
me volverà loca? ti urlo io.
no, boig, rispondi, cercando di pronunciare bene, qui si dice boig.
anche questa sai, amore mio. ma come fai?

a la boqueria poi, tu ovviamente conosci tutti.
io mi chiedo come sia possibile che la gente si ricordi di te.
tra i milioni di turisti e passanti, loro ti chiamano per nome.
ti avranno visto sì e no un paio di volte nella vita, ma ti contendono tra sorrisi e abbracci, ti omaggiano più di un buddha birmano.

mentre tengo in braccio una papaya, tre chili di prosciutto, un sacchetto di frutta secca e un gambero rosso crudo, e vedo quanto sei amato dalla gente, penso che devi essere davvero una bella persona.

non che non lo sapessi già, ma a volte mi commuove vederne gli effetti.

sei una bella persona.
tu lasci nel mondo un solco iridescente, e la gente che incroci sulla tua strada ti riconosce ti osanna, come i delfini sulla scia della nave.
sei un uomo buono.
fai del bene. tu produci il bene.
e io la so quella storia del bene che ritorna, ma in realtà mi stupisce sempre.

fai a pezzi il mio cinismo con il tuo vivere quotidiano.

poi seduti al pinotxo ti ritrovo, nella nostra forma intima e conosciuta.
juanito ci serve ogni ben di dio, ci versa il vino e ci imboccherebbe pure, se non lo stessi già facendo tu con me.
come stai? cosa hai fatto in questi giorni? ti sono mancato?
mentre i colori sfrecciano veloci ai bordi degli occhi, precipito nel buco nero delle tue pupille gentili, e sento il cotone del tuo amarmi ricoprire gli spigoli e le schegge delle mie incertezze.

solo così possiamo camminare uniti, senza farci male.



giovedì 25 marzo 2010

cerco persone da amare.

charlie brown diceva I need all the friends I can get.
probabilmente avrebbe avuto i cinquemila contatti facebook e sarebbe andato alle pizzate con i compagni delle medie.
oggi ho camminato in strada per ore e risposto più o meno a sguardi, domande, sorrisi. ogni volta che incrociavo qualcuno pensavo a chi fosse in realtà. a cosa avrebbe fatto una volta tornato a casa, cosa leggeva, come si sedeva a tavola, a chi rispondeva al telefono, la sua routine al mattino, come metteva le mani quando pensava.
mi dicevo, chissà se potrebbe essere mio amico.
chissà se potrebbe diventare una persona da amare.

la pura e semplice verità del mio esistere oggi.
cerco persone da amare.
I need all the friends I can love.

come il mio fruttivendolo al mercato coperto.
come l'oste di via rovello.
come la mia amica j, anima affine.

ho un surplus d'affetto da destinare a chi sa cosa farsene, e sono sempre aperti i colloqui.

è così difficile trovare persone tra la gente.



domenica 21 marzo 2010

le rane.

sotto la doccia ti ho insaponato i capelli, massaggiandoti lentamente il cranio.
stavo dietro di te, non ti vedevo ma sapevo immaginare la tua espressione.
scommetto che avevi gli occhi socchiusi.
poi ti ho risciacquato con calma e attenzione, e ti ho messo il balsamo, il mio.

a dieci metri dal suolo le nostre esistenze hanno la giusta dimensione.
si ridimensionano desideri e problemi, speranze e drammi in corso.
l'inutilità dell'individuo è direttamente proporzionale alla distanza da cui lo si osserva, e io mi sento sollevata dall'incarico del senso.
siamo tutti più vulnerabili, siamo tutti più volubili.
e le secrete cure che al viver tuo furon tempesta non sono altro che ininfluenti interferenze atmosferiche.
a questo pensavo passeggiando per brera, guardando all'insù.

ti ho massaggiato le ciocche una ad una, sciogliendo i nodi tra le dita.
poi con la schiuma ti ho disegnato scie.
dalle tempie alla testa, scivolando sulla nuca e il collo, allargando sulle spalle e giù per tutta la schiena.
lì ti ho preso e ti ho girato, e mi sono inginocchiata.

un giorno, se anche io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, ti prometto che sederò con te a condividere le poesie imparate a memoria.
e ti spiegherò bene la mia teoria sul teatro.
ti parlerò delle città che ho vissuto e di quelle che ho immaginato.
e ti racconterò tutto quello che so sull'astronomia e quel poco che ho capito di me.
delle risposte che non mi sono mai data, delle sensazioni dei traguardi, delle scorciatoie dal nulla verso al nulla, del prezzo che ho dovuto pagare.
sarà dolcissimo.
la comunione, l'oblio.

mentre l'acqua ci benediceva, non ti vedevo ma sapevo immaginare la tua espressione.
scommetto che avevi gli occhi socchiusi.


martedì 16 marzo 2010

quando ci malmenavamo, oh! come eravamo felici.

rivendico il mio diritto al malessere.
il mio diritto all'asocialità.
al cellophane di uno sguardo astioso che tiene lontano gli altri umani.

in verità vi vorrei tutti attorno. un abbraccio collettivo per salvarmi dall'ansia. ma alla fine le uniche due braccia che mi possano davvero aiutare sono le mie, e le sto usando per tutt'altri scopi.
sto comprimendo un anno e tre mesi di via valenza 17 in scatoloni da discount e sacchi neri. mai metafora fu più appropriata.
la rapida svalutazione della mia vita da giovane.

piango. diamine se sto piangendo.
trascuro deliberatamente le cause e guardo gli effetti: lacrime e rimmel su magliette e vestiti che nemmeno mi ricordavo di avere.
barricate nelle profondità dell'armadio, custodi di profumi e macchie di un'era geologica trapassata. si può forse non piangere? a me viene da morirne.
comincio a pensare che per correttezza intellettuale non dovrebbero più essere indossate, né tanto meno trasportate nella nuova casa. come certi pensieri, come certe speranze che mi ero messa addosso, ormai fuori moda, ormai troppo strette.

come quando mia mamma faceva i sacchi di vestiti da dare ai bambini della bosnia.
in questa scatola mi abbandono in mezzo alla strada.
mi sto amputando.


lunedì 8 marzo 2010

cormorani.

le parole che mi dici sono difficili da capire.
e io che ti siedo davanti in questo tavolino di un caffè affollato vorrei che il cameriere mi portasse dei foglietti illustrativi, dei depliant con le varie offerte, con la mia faccia di qualche anno più vecchia, sorridente o triste, svuotata o spaventosamente consapevole, così da poter scegliere, così da poterti rispondere a voce alta.

per non iniziare mai, rimando sempre a domani.
per non finire mai, rimando sempre di qualche ora.

è tutto sfocato.
a te piace buttarti e sfracellarti.
tanto cos'hai da perdere?

sei contemporaneo.

io sono una vetrina di mappamondi, teschi, piume di struzzo e scrigni tarlati.
cilindri di velluto coperti di ragnatele e maschere di venezia.
pentagrammi ingialliti, pipe di oppio e ciotole di argento, per cani di polvere.
mappe antiche e vetri rotti e anelli per dita piccole.

oggi siamo gabbiani superbi sugli alisei.
oggi siamo cormorani in un mare di petrolio.

ormai siamo troppo giovani per fare queste cose, amore mio.

giovedì 4 marzo 2010

o bianco? non ricordo.

a colazione uova fritte e caffè nero.
come i detective negli hardboiled anni ottanta che tanto ti piacciono.
la verità è che non riesco più a tornare italiana, e il cappuccino lo ordino a cena.
siamo stati via così tanto tempo che il cibo in frigorifero è marcito e gli amici si sono dimenticati di noi.

il nostro piccolo mondo antico deteriorato in tutta fretta.

e ora?
mi affaccio dal dionisiaco al pianeta buio solo per un attimo.
vivo in un olimpo di tempo sospeso.

ho così tante cose da dire che rimango in silenzio.

come la somma di tutti i colori che fa nero.


mercoledì 10 febbraio 2010

anecumene cardiaco.

e tu mi dici, è un film triste, non ci andare.
e io ci vado e poi ti scrivo che è il film più triste dei film tristi.
ma tutta la vita un fellini in bianco e nero piuttosto che un avatar in 3D.

e ti scrivo che comunque, alla fine, la mia dolce vita sei tu.



il termine indica le terre emerse che, per le loro caratteristiche fisiche o climatiche, non sono adatte all'insediamento umano.



venerdì 5 febbraio 2010

intensità offese.

domani i miei vestiti saranno di nuovo puliti, stirati, addormentati composti nell'armadio.
i capelli imbavagliati, la pelle zittita.
torneremo a sapere di sapone e buone maniere.
proibirsi a vicenda.

e verrò a tavola con te sorridendo a occhi bassi, a labbra chiuse. sembrerò solo un po' stanca e tu non ti preoccuperai.

smalto rosso che accarezza distratto lo stelo del bicchiere.
smalto rosso che schiaccia le briciole di pane sulla tovaglia.
smalto rosso che non ti graffia più la schiena.



ho lavato i denti fino a farmi male, sentire il sapore salato tra la menta.






lunedì 1 febbraio 2010

nidi.

molto presto.

le case che è bello immaginare, arredate in modo assurdo.
io che porto una scatola di libri, tu i jeans di ricambio.
tu le bottiglie di scorta, io una coperta abbastanza spessa da tenerci caldi.
o da sdraiare sul pavimento, anche se mi pizzica la schiena.
lo spazio per la cuccia, che tu hai capito culla. e io ho sorriso e non ho ripetuto cuccia.

siamo genitori di bambini che non esistono, che amiamo così tanto da non farli nascere.
i figli che lasciamo in forma astratta per proteggerli dal mondo.
e farli crescere a seconda del nostro umore, o delle scarpe in vetrina che compriamo virtualmente.

tu vuoi una femmina, che assomigli a me.
io vorrei un maschio, cucciolo d'uomo.

che poi finiamo sempre in posti dove non c'è spazio per il passeggino.
e mi fotografi un seno verginale all'oscuro di tutto.

ma so che quando facciamo l'amore, anche tu ci pensi.



forse sto impazzendo.


mercoledì 27 gennaio 2010

cartoline, libri e vinili sono piastrelle.

compro un lilium anche se so che per portartelo mi gelerò le mani.
non le ho tirate fuori dalle tasche nemmeno per salutare lei che partiva, in treno, mentre ora sono qui con il palmo aperto sotto un bocciolo che ciondola per paura che si stacchi.
tiro su col naso un attimo prima di citofonarti.
poi saranno sorrisi e coriandoli, ciotole piene e cellule in rimescolamento.

sono tornata.
che sciocca ero, pensare che bastasse sguazzare l'atlantico per dimenticare tutto.


venerdì 22 gennaio 2010

come se tutto fosse permesso.

cos'e' forse questo?
il richiamo della carta vetrata?

che mi manchi la vita che ci sta dietro azzannando i polpacci?
o il freddo che taglia la faccia e le parole?

fette di torta e cioccolata calda, velluto e caminetto acceso, ma non corrompi l'essenza bastarda della mia vera natura.

mi piacerebbe finire tutto bene come e' cominciato.

che almeno non mettano titoli del cazzo, il giorno dopo, quei fottuti bastardi.