giovedì 30 dicembre 2010

ocho cuadros.

mi dice che il giorno che aveva imparato la sua lingua lui si era ammalato.
il primo giorno in cui lei era riuscita a parlargli in spagnolo lui si era steso a letto e non si era più alzato.
il sole ci sta sopra come la lampada dei pulcini, io mi genufletto davanti alle tombe per cercare l'inquadratura e lei mi dice che da allora lo spagnolo non l'ha parlato più.
me lo dice in spagnolo e mi indica una lapide diversa da prima.
la guardo e vedo una tenacia folle e disperata sotto la sua vecchiaia.
l'amore l'ha portata fin qui, il dolore non la lascia andare via.


a me piacciono i cimiteri, ti dico, non i centri commerciali. i centri commerciali mi fanno paura, mi ricordano la natura della condizione umana, mi fanno pensare che un giorno potrei finirci dentro anche io.
ma tu non hai voglia di parlare e mentre risaliamo san telmo stiamo zitti un po'. i miei piedi si sfaldano in scarpe inadeguate, un signore ci cammina accanto cantando un tango a bocca chiusa, la melodia mormorata, negata agli altri, protetta dal rumore delle cose fuori.

gli uomini hanno camicie a quadri, le donne indossano occhi neri e bambini. i chioschi con le arance fanno le spremute, e le case di lamiera colorata sono state dipinte con le vernici avanzate dalle chiatte del porto.
nel quartiere pericoloso dove tu non vuoi farmi andare.
che la distanza tra noi e le cose che vogliamo vedere è sempre ocho cuadros, ci dicono, anche se poi sono venti o sono tre.
anche se poi comunque tu mi seguiresti dappertutto, come io seguo te ovunque.


il loro spagnolo morbido e sbiascicato, come se fossero appena svegli, come se fossero ubriachi.
un paese che ha ricacciato in mare invasori madrepatria e oppositori. un paese che non c'è la fatta. vende caramelle e case al prezzo di un'offerta libera.

e cammino per le strade deserte dell'alba, sono le sei di mattina qui.
cani e casse di bottiglie vuote.
l'odore dolciastro di liquori e di asfalto caldo. l'odore che riconosco.
il comune denominatore del mondo, ci scorre lo stesso alcol nelle vene.
nell'alcol siamo consanguinei.

giovedì 23 dicembre 2010

passaggi.

i miei fogli bianchi.
il perenne autunno della mia scrivania, cadono i fogli portandosi via la mia mediocrità e la frustrazione.
che per terra sembra che abbia nevicato, e tu calpesti le poche parole rinnegate per venire a portarmi il tè.

i miei nasi provvisori.
nelle foto che ho ritrovato ti stavo per baciare, ti respiravo con uno dei miei nasi.
il secondo credo, il più cubista di tutti, quello subito dopo l'incidente.
che sistemeremo anche i nostri profili, raddrizzeremo le costole e smusseremo questi zigomi da slava.

i miei cani di seconda mano.
quelli che alla prossima reincarnazione saranno già dei bambini, perché la sofferenza in questa vita li ha fatti evolvere in fretta.
siamo legati senza guinzaglio, ci unisce la dimestichezza con l'abbandono e la capacità di vivere al presente.
e il cane nero che ho comprato da uno spacciatore, la sera più buia di novembre, in riva al lago. il cane che ho amato di più, preso e perso, spero mi abbia dimenticata, spero che non smetta mai di odiarmi.




martedì 21 dicembre 2010

volevo solo pronunciarti.

ci veniamo incontro accelerando e frenando, divisi tra fretta e paura, come le macchine agli incroci di notte, quando il semaforo è giallo lampeggiante.
che stamattina ti ho visto ma non ho potuto sorriderti, perché il freddo mi strappava le labbra.
e tu vieni a parlarmi per allontanarmi. è un controsenso, è un ossimoro di intenti.
sei un'esca che dissuade, una calamita con i poli fusi insieme.
come quando ho sognato che mi sdraiavo su di te e ti dicevo no.
questo siamo, un'impossibilità possibile.
non so cosa fare con te, davvero.

io che volevo solo pronunciarti.
tenere il tuo nome in bocca come se fosse una cosa mia, una cosa naturale, che mi apparteneva come i denti, come la lingua, il palato.
poterti dire, doverti dire.
pronunciarti. come una qualsiasi parola della mia lingua.


mentre io e lui ci avvolgiamo nelle lenzuola metalliche, le mie lenzuola di lamiera, siamo bozzoli nelle coperte, crisalidi al contrario, ci addormentiamo farfalle e ci svegliamo vermi.
tra gli incubi e l'insonnia mi dice che non sa più cosa scegliere.
e io gli dico, resta sveglio che ci sono io.
e lui mi dice, tu ci sei anche dall'altra parte.
mi fissa senza vedermi.
eppure aveva gli occhi che mi lasciavano bruciature di sigaretta.
era l'uomo che intaccava le mie nevi perenni, e ora sta passando e non ha raccolto niente.

che dovremmo vivere per qualche tempo in due paesi diversi, e amarci tramite i corpi di estranei.
metterci un oceano di mezzo, che se un giorno ci venisse voglia di piangerci sapremmo dove buttare le lacrime per non farci scoprire.



ma io non sono come te, amore mio, io non ho difese.
sono una scrittrice, sono un calamaro.
la mia unica arma è l'inchiostro.
l'inchiostro e la fuga.

domenica 19 dicembre 2010

del mimo e di noi.

ti racconto la storia del mimo e la tua reazione mi delude.
poco e per un attimo soltanto, come la puntura di uno spillo.
diciamo che ormai non mi fa più male.
è come se me l'aspettassi, ci provo sempre, ma lo so.
non abbiamo lo stesso genere di sensibilità, e tu ora non ti sporgi più in avanti.
la mia fatica di spiegare, la tua fatica di capire.
comunicare con te è una lotta stanca.
come due combattenti sfiniti. i gesti lenti, i colpi esausti.
barcolliamo e lasciamo cadere.


era venuta mia mamma a milano, stavamo passando in galleria.
abbiamo visto due poliziotti multare un mimo.
era scena molto forte iconograficamente.
in mezzo alla folla in movimento, le tre figure ferme.
il mimo era minuto, un ragazzino. vestito di bianco, con il viso colorato di bianco.
i poliziotti erano imponenti, seri, le loro divise scure, le pistole, i manganelli.
il mimo era sceso dal suo piedistallo, e si era rimpicciolito. chiuso nelle spalle, a testa bassa. con l'espressione più triste di qualsiasi maschera triste.

ho tirato fuori dalla borsa una banconota, una banconota grossa.
ho detto a mia mamma, aspetta almeno che si allontanino.
lei l'ha presa ed è andata, no voglio che vedano, ha risposto.


e tu mi dici che sono garantista.
e ti sento parlare di estremismo, elemosine, racket, regole di occupazione del suolo pubblico...
ma guardalo, non faceva del male a nessuno.
non importunava i tuoi preziosi turisti ai tavoli, non vendeva le tue stupide borse contraffatte, né elemosinava sbattendoti in faccia un corpo scomodo.
cosa mi stai dicendo, dove sei?
no, non volevo raccontarti una buona azione.
me ne sbatto delle buone azioni, ho mandato avanti mia madre. lascio agli altri la gloria, non è quello che mi importa.
io stavo aprendoti all'equilibrio dell'universo.
stavo cercando di farti capire cosa intendo quando ti parlo dell'armonia.
l'insieme del tutto, la concatenazione di tutte le cose.
e gli errori e gli interventi riparatori, gli sbilanciamenti e i contrappesi, le offese e le scuse.

davanti a me, avevano oltraggiato l'arte.
punito l'artista, svilito la bellezza.
io non posso passare oltre come se niente fosse.
chiamami stupida, dì che sono pazza, dì che esagero, ma una cosa del genere mi ferisce dentro.

mia mamma gli ha allungato la mano, e il ragazzino non è riuscito nemmeno a sorriderle. aveva la bocca spalancata e gli occhi sgranati, più di qualsiasi espressione teatrale.
abbiamo ripreso a camminare per milano, ascoltando l'eco di pianeti lontani riprendere le loro orbite.

amore mio, perché non capisci.

giovedì 16 dicembre 2010

alla fine della notte.

e così ero alla fermata della 94 a congelare e ho pensato, chissà cosa mangia t. a colazione.
lo pensavo forte e così gliel'ho scritto, t cosa mangi tu a colazione?
e lui ha risposto subito, e mi ha descritto una colazione dolce, equilibrata, calma, completa.
proprio come lui.
e poi sulla 94 mi è venuto da pensare alle nostre, di colazioni, che erano come noi.
dolce e salato insieme, nello stesso boccone.
e a quel periodo furibondo dove la mia colazione era marlboro rossa e caffè amaro.
e a quel periodo irriverente dove la mia colazione coincideva con le vostre cene.
e a quando, non si è mai capito bene perché, bevevo il thé e lo vomitavo.
all'uovo sodo della mia coinquilina norvegese.
al protobiberon. maledetta anima irrisolta, te e le tue proteine solubili.
al bicchiere d'acqua del rubinetto di c. le mille volte che mi fermavo a dormire da lei nelle mille case di milano che ha passato. poi un caffè bevuto da entrambe nella stessa tazzina chissà poi perché. che anche se lei lo bonificava con lo zucchero a me piaceva lo stesso.
le colazioni comuniste, le colazioni tropicali.
ai rari cappucci e brioche presi nel bar vicino a casa sua, dove vedevo il fantasma di bukowski in ogni viso relitto, che io ci andavo senza reggiseno, con il rimmel spalmato in faccia e lui i pantaloni ancora sbottonati e nessuno ci guardava. me lo facevano con tanta schiuma e tanto cacao, eravamo di gran lunga la clientela più rispettabile.
a tutte le colazioni del primo risveglio insieme. quelle fondamentali prove del nove per capire se c'eravamo ancora o no.
vuoi un caffè? no devo scappare.
scappo, scappo proprio.


domenica 12 dicembre 2010

domenica notte.

quanto vorrei una vasca da bagno.
per ubriacarmici dentro, per poter fumare da sdraiata.
perché la schiuma non scivoli via, per andare sotto con la testa.
e mettere intorno le candele, e le dita nelle candele.
per farmi il bagno con il cappello in testa,
anche se poi tu me lo toglierai comunque, lo so.
perché leggere i miei libri sotto la doccia confonde i finali delle storie.
per farmi lavare, per stare dentro in tre.
per sentire l'acqua diventare fredda e avere voglia di uscire.

immergermi, come tu bagni l'orchidea.


mercoledì 8 dicembre 2010

il lupo.

quando ancora non parlavi italiano ci capivamo meglio, io e te.
e avevamo conversazioni più profonde.
quando ti ho insegnato a contare fino a dieci è stato molto divertente.
per me almeno. ma anche per te. per il farmacista meno, ma vabbè.
uno due tre cazzo cinque sei sette culo nove dieci.
che però tu sei svelto e l'hai capito troppo presto.
anche se ora mi dicono che continui a dire culotto, e io ogni volta devo ingoiare saliva salata per non urlare che lo so, che te l'ho insegnato io, che io e te non eravamo solo colleghi, che ho una cicatrice di tre centimetri che devo a te, e tu hai un mio quaderno nascosto da qualche parte a casa tua, qualche foto segreta e forcine disperse tra i cuscini del divano e le piastrelle della veranda e... e niente.
niente, niente.
non volevo dire niente.

scusa se non ho imparato niente nella tua lingua.
non è mi è mai capitato in vita mia di non riuscire nemmeno a riprodurre una sillaba.
so qualche frase in russo e pronunciavo correttamente anche il cinese.
ma con te è stato impossibile.
il suono della tua lingua è come un ululato.
qualcosa di lontano, di ancestrale, di misterioso.

e comunque, tu non la volevi nemmeno sentire.
tu sei venuto qui per dimenticartela, forse.
e comunque, noi ci capivamo.




martedì 7 dicembre 2010

l.g.

ma sai che viaggi mi son fatta anche oggi?!
sono qui, seduta a tavola davanti al mio pacchetto di crackers per cena, e mi devo tenere la fronte con la mano.
ho una specie di jet-lag da sogno diurno.
della serie, the vittoria cane entertainment è lieta di presentarvi...
e boom, missili di sogni ad occhi aperti che sfondano la stratosfera di milano.
giri di montagne russe tra vite immaginate assolutamente a caso, che poi non si può nemmeno tornare sulla terra e dire, bene, quello che ho visto mi piace, lavoriamoci e andiamocelo a prendere.
no.
qui si mescolano città, lingue, professioni, hobby, persone, amanti, case, tempi atmosferici e storici.
mamma mia.

è un fenomeno diffuso, lo so.
e io lo pratico quotidianamente.
credo ci sia stata giusto una manciata di giorni in cui non mi son fatta nemmeno un filmino in testa, ma perché in un filmino irreale c'ero dentro per davvero.
quelli sono forse i giorni peggiori.
perché testimoniano che si può. creano precedenti pesanti al tribunale del buonsenso.

comunque, oggi la situazione mi è scappata di mano, lo ammetto.
oggi ho sfiorato l'autismo.
credo che sia colpa di questo ponte di inattività, freddo buio e isolamento forzato.
sono tre giorni che non vedo nessuno.
il primo giorno sono scesa a spostarti la macchina.
ieri a buttare la spazzatura.
oggi non ho nemmeno aperto la porta di casa.

poi una mente libera ha bisogno di cose belle.
per una mente affamata non c'è differenza tra sogno e realtà.


domenica 5 dicembre 2010

pelle di tamburo, acqua increspata.

prima di partire mi hai impollinato per bene il cervello.
così, anche ora che sei dall'altra parte del mondo io sono qui a pensare a te, a parlare di te, a innamorare di te.

sei furbo.

mi hai presa mentre passavo, distratta.
mi hai seduta sulle tue ginocchia, dandoti le spalle. mi hai abbracciata stretta con le mie braccia e le tue.
mentre il giradischi passava de gregori, hai appoggiato la tua testa sulla mia schiena.
hai premuto la faccia sulla mia schiena, e mi hai cantato sottovoce pezzi di vetro.
e io la tua voce l'ho sentita dentro.
ero una cassa di risonanza che vibrava delle parole di de gregori e della tua voce.
la tua voce ruvida che era dentro, rimbalzava greve tra gli organi le ossa le membrane.
scuoteva dall'interno, io ero pelle tesa di tamburo, acqua increspata.

dio cristo.

nemmeno respiravo, per non farti smettere.




de gregori ha cantato ancora, ma noi non lo sentivamo già più.
poi il disco ha cominciato a girare a vuoto.
ha girato a vuoto fino al tramonto.



mercoledì 1 dicembre 2010

novembre, quello che ti sei preso.

stavo fumando una matita per le labbra. stavo ingrassando.
stavo parlando francese su un palco di teatro in una scena di un film.
stavo tornando da new york e vomitavo in business class.

stavi cambiando i tuoi colori, pelle più chiara, capelli più neri, labbra più viola ma a nessuno sembrava importasse.
stavi bevendo liquore di prugne su una casa galleggiante a staten island.
stavi vicino a me e mi dicevi: amami meno, ma amami più a lungo.

stavamo provando la scena con la truccatrice, nostra balia, nostra mamma, nostra banca.

sto pensando se mettere o no le immagini.
sto cercando di capire se è bene darvi anche delle immagini.
perché ci sono, e anche loro ne hanno da dire.