giovedì 24 febbraio 2011

dal sottosuolo, uno.

tu non hai colpa.
so che hai fatto tutto il possibile, so che avresti potuto fermarti molto prima.
non te ne sono grata, ma te lo riconosco.
e ora che mi chiedi spiegazioni, ti esorto solo a non odiarmi.


con parole nuove ti racconterò storie vecchie.
le mie vecchie paure che sono dentro di me come le vene.
le sento ovunque, ramificate tra gli organi, a irrorare di dubbi e angoscia anche la piccola cellula del mio corpo, come un processo biologico di anti-metabolismo.
amici miei, che siete i miei fratelli e i miei sconosciuti.
cosa vedete qui?
chi vi metto davanti?
quanto siete disposti a non sopportare per sapere chi sono davvero?


potrei morire crisalide e lasciarvi innamorati solo del mio bozzolo.
potrei non sbocciare mai, perché sto capendo solo ora che forse non mi basta una vita.
o forse non mi so organizzare.
o l'utero è un luogo della mente, e dura anni dura per sempre.
io non sono ancora nata.

non sono ancora nata.

nel frattempo giro per il mondo in personaggi irrinunciabili.
non so recitare, so vivere le vite di altri.


domenica 20 febbraio 2011

vecchie storie, storia moderna.

(temporali e primule, sulla tua pelle di seta e fango, sono sdraiata nel tuo letto capace di sogni.
mi hai cercata? mi hai voluta? mi hai aspettata?
lo so, lo sento e il mio viaggio attraverso l'italia vale la promessa di un brivido.
sarai il mio illuminismo, il mio rinascimento, il mio umanesimo.
mentre il treno mi attraversa i ricordi e le persone cambiano.
vedo tutto e non vedo niente.)

di tutte le parole che hai detto, qualcuna da vivere noi due.

che cosa abbiamo rubato, da qualcosa siamo partiti.
quanto ci siamo fatti attendere tutti e due, per capitarci a caso in un imprevisto perfetto.
quante persone abbiamo sopportato per arrivare a noi.
e sul tavolo ti metto solo il mio sorriso ambiguo, per vedere tu come ti muovi.
e sei la conferma del mio istinto, sei un fiammifero acceso che non è stato sprecato.
sorprendimi, sorprendimi ancora.

posso aspettare ancora anni contati sulle punte delle notti.

mi hai appiccato un pensiero.
brucio discreta.
aspetto il rogo.

(e le mie gambe sotto le lenzuola, come radici d'alberi ricoperte di asfalto, che ti fanno disarcionare dalla bicicletta se non ci stai attento.)

sabato 12 febbraio 2011

il capovolgimento della clessidra.

eravamo giù, alla rimessa delle barche, nella vecchia villa sul lago della nostra migliore amica.
l'autunno cedeva all'inverno, era tutto più rallentato e vivido, e noi, come sempre, avevamo un po' freddo.
gli altri erano in casa, noi ci eravamo fatti un giro per quel parco immenso, e poi eravamo finiti lì, per caso, voglia o necessità.
subivamo già l'attrazione per i luoghi dismessi, i luoghi arresi alla loro fine ma ancora fieri del loro passato. ne avevamo trovati tantissimi insieme, e avevamo passato pomeriggi a stare bene, senza conoscere ancora la parola decadenza e quanto sarebbe stata fondamentale per noi di lì a poco.
questo era il nostro preferito.
eravamo lì, innocenti e compromessi, a giocare in bilico sulla darsena, seduti a cavalcioni su una trave.
pensa, eravamo più forti anche delle mie ataviche vertigini.
stavamo facendo una specie di tris con i petali di un fiore, ma con delle regole più divertenti che avevo inventato io al momento e che ora non so più.

il mio mondo. lo scenario sempre uguale, lo sfondo delicato delle mie trame.
forse era cambiato lo sguardo, era cominciato un nuovo atto, ci ritrovavamo ma non ci riconoscevamo più.
sono passati dei minuti scanditi solo dalle ondine sugli scafi, minuti come ore, come una vita intera.
l'inverno avanzava sopraffattore, si prendeva il suo posto a pugni e raffiche di vento, ma io ho pensato:
è la mia primavera.



occhi negli occhi.



ci ha risvegliato uno stormo di anatre sopra di noi, la frizione del vento tra le loro ali.
tu che hai fatto quel mezzo sorriso, così simile a una smorfia di dolore.
e con il dorso della mano hai lasciato volare via tutti i petali.
ti sei sollevato, mi hai fatto una carezza sulla guancia, mi hai guardato senza direzione e hai detto,
ora fa freddo, dai, andiamo via.


la fine della mia infanzia e l'inizio dell'adolescenza.
un confine convenzionale che ho tracciato con una certa arroganza, come le linee tra gli stati africani, belle rette sulle cartine, insensibili ai massacri e allo scompiglio.

giovedì 10 febbraio 2011

di nascosto da noi.

ma c'è la nebbia o abbiamo i vetri sporchi?
non siamo più intellegibili come un tempo, quando eravamo così stupidi che tutto era più chiaro.
sfrego con la manica il vetro, osservo la detonazione prematura dei cento giacinti in terrazzo, sono le luci di natale della nostra primavera invernale.
parlo da sola perché tu sei a parigi.
mi chiedo quanto tempo è passato, ma me lo chiedo come se la risposta fosse già la frase.
quando tornerai dovrai rimetterti subito in viaggio per venirmi a cercare, nella terra sconosciuta e scontrosa delle mie divagazioni. che ormai quando parti e mi baci sulla porta, mi dici cerca di non allontanarti troppo.

i miei amici mi portano il cibo, come le gattare tra le rovine, come gli indigeni al tempio.
fiori frutta e film, perché tutto il corpo abbia il suo nutrimento, e la compagnia si faccia sottile e assimilabile come un gas euforizzante dissolto nell'aria.

inventeremo ancora un altro alfabeto per parlarci di nascosto da noi stessi.


lunedì 7 febbraio 2011

narciso nel pozzo.

l'autocritica feroce, il massacro mediatico a riflettori spenti, i capelli.
quel mio preoccupante disturbo della vista che non accenna a migliorare, che da vicino vedo tutto ingrandito e da lontano invece vedo così sfocato che è nebbia. la mia cortomiranza cronica, che basta tornare a terra, quando le ruote dell'aereo sbattono sull'asfalto, e io già ho perso di vista la mia proiezione ortogonale, l'orizzonte sottolineato con l'evidenziatore, mi sono già persa di nuovo. e mi capita di trovarvi ancora attraenti, appetibili, ammirabili, voi che siete il nulla, che siete l'ingannevole niente della vostra superficie levigata, che siete quelle quattro foto desaturate che vi siete fatti, voi che siete la manciata di parole che avete scritto, e pensate di essere l'evento che sposta l'asse terrestre di qualche millimetro.

vi.credete.così.importanti.

ma voi non siete un cazzo, ragazzi, spegniamo la musica e accendiamo le luci.
non siete niente di niente, vi siete ricoperti di rumore e parole grosse per non vedere.
carne passeggera, nell'assoluto effimeri, sostituibili, eventuali.
se ci fosse del genio in quello che fate, si sarebbe già fatto strada da solo.
se ci fosse del talento, non vi struggereste nell'ostentare.

voi state passando la vita a gridare che state esistendo.
e il tempo passa voi, ignorando la vostra fatica.

(sopravvivi.
nessuno ti sta guardando,
nessuno ti ha mai guardato.)

bugie
tristezza
solitudini
paure
sono di tutti.
non sei speciale.
accettalo.

m.c.

sabato 5 febbraio 2011

occhi e occhiaie dello stesso colore.

gli adesivi sui vetri, quelle etichette bianche sulle finestre delle case nuove che segnano la fine del cantiere e l'inizio dei traslochi.
le parole che non restano. e plastifico i fogli, riempio i quaderni, catalogo, imbusto, graffetto. creo il più grande archivio ufficiale della storia privata, trascrivo messaggi, copio incollo, perdo le notti per salvare le parole.
per i paleontologi del futuro, che scaveranno alla ricerca dei fossili dei nostri ti amo.
la tua collezione di aria nei barattoli, quando è caduta la mensola in camera tua, e abbiamo respirato dieci città contemporaneamente, tranne bangkok che si è salvata.
le cartoline che ci spediamo quando siamo in giro per il mondo, indirizzate a noi proprio, così quando torneremo a casa saremo felici di aprire la cassetta delle lettere, perché ci scriviamo cose bellissime e ci auguriamo di vederci presto, e chissà cosa pensa la portinaia poi.
quella frase che mi hai detto uscendo, e io non l'ho ancora capita.
e quando mi piangevi sopra e le tue lacrime mi entravano negli occhi come collirio.

la verità che sta nel silenzio e nel colore delle pillole sul comodino. perline di una collana rotta, ciondoli che hai ingoiato a uno a uno quando avevi la bocca aperta per dire qualcosa che poi non hai detto. come mia madre da bambina che mordeva la sua placchetta d'oro con incisa la madonna, ogni volta che aveva paura.
me l'ha fatta vedere da grande con tutti i segni dei morsi.
e io lì, mi son sentita morire.
ma morire, proprio.