lunedì 15 novembre 2010

ballerina. (ballerina mia.)

mi hai perdonato anche quando avevo raccolto tutti soldi per venire a trovarti, e la sera prima ho perso la borsa, ho perso i documenti e ho lasciato andare via anche il treno, non sono nemmeno andata in stazione. mi hai perdonato la resa.
avevo messo insieme ogni singola moneta scavando nei fondi delle borse, nelle tasche dei jeans da lavare da mesi, dalle buste con scritto le cose per cui sarebbero serviti i soldi buenos aires libro papà zilla vet.
avevo preso tutto perché volevo comprarti dolci fiori sigarette e portarti nei ristoranti che di solito guardi da fuori e nei musei dove ci saremmo seduti a guardare le persone a farci guardare come opere come happening e in tutti i cinema e i mercati, e comperarti cose per la casa e per il tuo studio. volevo tornare senza un centesimo ma radere al suolo la città, e spaccarti l'asse dei ricordi tra il prima e il dopo me.

i miei sogni su di te sono fuochi d'artificio che mi scoppiano in mano.

vabbè. sarà per un'altra volta.
sarà solo un altro peccato che dovrò scontare, un'altra mancanza. l'ennesimo buco nel vuoto.


io nei tempi morti ho imparato un'altra lingua straniera.
sembra un lamento e ha un sapore tropicale.
era come se ce l'avessi già nel mio cervello.

martedì 9 novembre 2010

iris.

ho radunato il mio piccolo tesoro le candeline dei compleanni, i mozziconi delle feste passate, di cugini non nostri e matrimoni in cui lavoravamo nel catering e rubavamo il cibo per i giorni dopo, e dicevamo che avevamo dei cani ma i cani eravamo noi e tu ti incazzavi perché mangiavo anche gli avanzi dai piatti che sparecchiavo ma dio se ero magra, dio quanto ci scavava quella libertà dittatrice e fiera che ci eravamo messi addosso.

intorno al letto abbiamo acceso l'esercito di moccoli consumati, numeri colorati, sposi colati, un cimitero di vessilli ardenti per vedere nelle ombre sul muro gli origami del nostro amore.
anche se alla fine a fare luce nella stanza è sempre la scritta della banca e quei cazzo di neon data, ora, temperatura, data, ora, temperatura, data ora temperatura.

le piante stanno bene. sì, le bagno poco ma spesso.
mi sembra ci sia anche un nuovo germoglio ma forse mi sbaglio.
parlo al telefono con te mentre succhio un cucchiaino di miele, mi dici che miele caffè e vino rosso sono sempre l'unica cosa che c'è in cucina. e mi dici che faccio quel suono con la lingua come quando mi hai imboccato un granchio sul molo di san francisco.

di san francisco mi ricordo i barboni per strada, zombie inoffensivi, formiche lente, che si trascinano con il loro pezzo di pane stretto tra i denti seguendo la linea dei palazzi. e noi che sbagliamo bus e vediamo cose che decidiamo di non fotografare, non dire e non nominare più fra di noi.

nei silenzi che mi lasci penso che alla fine basta un momento, un attimo soltanto, un barlume di vulnerabilità nel mio nemico e io sono completamente disarmata. che se esce la debolezza della persona io implodo e mi rovescio e il filo spinato lo trasformo in stelle filanti, e le bombe in baci che schioccano sulle guance e sono fottuta, perdo ma non posso fare altrimenti.

e la bambina coi capelli blu mi si siede vicino.
ha una collana di alchechengi.
non ascoltava per davvero quella canzone, e ora si deve organizzare con le mie fotocopie.




lunedì 8 novembre 2010

i quaderni dell'equilibrio uno.

teneva una sigaretta al contrario e straparlava di foto hong kong sua madre modelle e chitarre.
faceva freddo, faceva buio, nessuno dei due era vestito a sufficienza, ed eravamo di un idealismo insospettabile, insopportabile, insostenibile.
e io continuavo a prendere la scossa dalle mie lampade monche, e la cosa mi sembrava molto più triste del fatto in sé. mi sembrava vivisezione di cavi e operazioni senza anestesia a piccole cassette di derivazione aperte sotto le mie dita incapaci e violente. mi sembrava uno stupro di piccole cose che volevano essere lasciate in pace, non volevano unirsi tra loro, non volevano sciogliere i propri nodi in cui si erano abbracciate strette, rinunciando a se stesse.
più piangevo più volevo la luce.
infierivo sui miei embrioni di luce e loro mi mordevano forte le mani.
hai visto i polpastrelli bruciati, ti hanno fatto paura gli occhi.
filtrava la pioggia, la sigaretta era umida noi eravamo già malati.
sulle ginocchia i nidi abbandonati, la muffa, cataplasmi di polvere.
mi dicevi non puoi andare avanti così, ti prego smettila, ma chi cazzo sei, la figlia dio?
avevo pensieri atroci, soffrivo la sofferenza di essere estranei, era un inferno.
mi abbracciavi, mi dicevi sei bruttissima così adesso basta.
torniamo giù.

lo sciroppo per la tosse che ci fa dormire tutta la domenica pomeriggio, coi nostri cani immaginari sul divano e quella radio argentina che si sente dal muro.

tutti progetti che non si sarebbero mai realizzati, non ci saremmo mai realizzati noi.
ma a noi non interessa, non è quello il punto.